La notizia è nel fatto che la notizia fosse una non-notizia. Anche se di per sé è una non-notizia anche questa. La notizia, infatti, è che il servizio de Le Iene sulla Blue Whale fosse una bufala, ma di fatto la cosa poteva apparire chiara a molti fin da subito senza suscitare troppa attenzione. Invece così non è stato, la non-notizia è diventata notizia e dietro questo enorme corto circuito si è sprigionato un incendio (fatto di falsi allarmi e possibili emulazioni) e molto fumo (fatto di chat, post sui social network e discussioni senza capo né coda).
Il corto circuito ha messo in evidenza alcuni fenomeni intrinsecamente legati, che hanno trasformato l’affair “Balena Blu” in una cartina di tornasole con la quale misurare la cifra stilistica dei nostri tempi, la natura della rapida evoluzione che stiamo vivendo e tutte le frizioni che questa cosa sta generando in termini di analfabetismo digitale.
La tv
Rieccola, la tv. Eccola, al canto del cigno, urlare la propria autorità sulle masse. Lo fa continuamente, perché gli sta sfuggendo quella posizione centrale fuori dalla quale non sa esprimersi. La tv sta uscendo dal proprio baricentro e, una volta perso l’equilibrio, sarà destinata a crollare. Dunque rivendica il proprio ruolo protagonista attraverso quelle trasmissioni che, facendo leva sul giornalismo d’inchiesta (che meglio scava nell’indignazione popolare), sanno quali leve toccare per suscitare passaparola, scatenare il coinvolgimento attorno ad un tema e aizzare le masse. Il caso Stamina evidentemente non ha insegnato nulla, perché chi rimane vittima di questa malainformazione tende a ignorare tutto quel che accade dopo: una volta rigurgitata la bile, del resto, si è semplicemente pronti a produrne altra, su altro tema, su altro fronte. Se non si ha memoria non si impara. Se non si impara non si sa. Se non si sa, si ignora.
Ed è così che la tv, che non perde occasione per delegittimare il Web cercando di far propria quella priorità che l’advertising richiede, è lì ad urlare quanto male possa esserci nel misterioso mondo del Web, dove l’uomo nero si nasconde generando catene di suicidi in mezzo ad innumerevoli atrocità e indicibile perversione. Basterebbe solo questo, in un’Italia ferocemente al palo in termini di cultura digitale, per puntare il dito contro chi produce il peggiore del “rumore dei nemici”. Ma il caso in sé è troppo truce per non focalizzarvi l’attenzione. Veri suicidi sono stati strumentalizzati per confezionare una falsa storia in grado a sua volta di essere percepita come vera. Ed in quanto tale, per un effetto tristemente noto da tempo, potenzialmente in grado di scatenare fenomeni di emulazione.
Il peggio della tv emerge nella sua epifania, quando la concorrenza del semplice smartphone costringe ad alzare i toni ben oltre il limite. Il limite in sé scompare, anzi, perché quel che conta è catturare l’attenzione ed i budget che ne derivano.
Il giornalismo
Il giornalismo è il vero sconfitto in questa vicenda. Il giornalismo d’inchiesta, soprattutto, perché le vesti della Verità vengono ormai strappate di mano pur di poterle vestire per qualche minuto. L’etica giornalistica è presa a schiaffi e tirata per la giacchetta, mentre l’Ordine si conferma totalmente immobilizzato dall’età e dal trovarsi fuori posto e fuori tempo. Neppure il clamore di un caso simile, dopo il clamore di altri casi e nel clamore di chiunque tenga ai sacri ideali che dovrebbero nascondersi dietro al termine “Giornalismo”, ha potuto nulla. Nulla. Silenzio.
Non c’è argine al fenomeno, ormai. E a questo punto occorre realmente interrogarsi su cosa sia il giornalismo, chi sia il giornalista, quale sia la competenza dell’Ordine e quale possa essere la linea sottile da tracciare per non superarla nuovamente. Una linea qualunque, purché esista. Purché si possa rientrare entro confini definibili.
Dicevamo: fake news?
Chiamarle “false notizie” del resto avrebbe aperto troppo il mirino, tirando dentro giornali e tv. Chiamarle “fake news” ha invece fatto il gioco di quanti volevano colpire qualcosa di molto più preciso: il Web. In questo caso la fonte è caduta troppo in fretta perché si potesse montare una polemica ad hoc: il Web che diffonde la Blue Whale, Internet che stimola i suicidi, le chat del terrore, la morte condivisa. I titoli erano pronti nelle rotative, la trama era già scritta nella mente di quanti hanno il canovaccio sempre pronto nel cassetto: Internet, questa landa sconosciuta, questa città di predoni e terroristi, sarà la rovina dei nostri giovani.
Poi però proprio dal Web son giunti i primi dubbi. Proprio dal Web son giunte le prime dimostrazioni. Infine la storia è caduta sotto il proprio stesso peso: la Blue Whale non è la pericolosa “Balena Blu” che è stata descritta, l’intero reportage (emozionale e pieno di allusioni) è stato montato ad arte su qualcosa che non esiste ed il terrore è svanito.
Dicevamo: dove stanno i detrattori del Web con il loro dito puntato contro le fake news? Nessuno che faccia seminari in Parlamento sul caso? Nessuno che raccolga firme? Nessuno che cerchi una telecamera per urlare la propria indignazione politica sulla questione? Nessuno che punti il dito contro la tv-cattiva che crea le notizie-false soggiogando nel terrore utenti-impreparati alla fiumana del passaparola compulsivo?
La prossima volta che sarà nuovamente sollevato il tema delle fake news, si spera che si possa partire da basi ben più solide di quelle che hanno retto il dibattito negli ultimi mesi. Si spera che il tema (che esiste, eccome) possa essere approfondito non per i canali su cui si manifesta, ma per il sostrato culturale che lo alimenta. Il tema “fake news” non deve scomparire dall’agenda, ma va affidato a chi non cerca colpevoli, ma colpe. A chi non cerca responsabili, ma responsabilità. A chi non parte con il pregiudizio sul Web, ma che intende capire come migliorare i flussi dell’informazione in un’epoca in cui la quantità ha totalmente depauperato la qualità.
Un eterno presente
L’affari Blue Whale passerà invece invano, perché la memoria è breve e un nuovo argomento è subito servito per polarizzare le attenzioni, le paure e l’indignazione. Si vive in un eterno presente, senza memoria del passato (nemmeno quello recente) e senza visione sul futuro (nemmeno quello prossimo).
In attesa di un nuovo ideale che restituisca le giuste proporzioni e le giuste prospettive, non resta che gustarsi questo senso residuo di amarezza, perché contraddistinguerà quest’epoca in cui il percepito è più importante del vero ed il mediato è più importante del reale. La lente crea distorsione, generando una bolla che non è post-verità, ma altra-verità: in questa bolla discutiamo del nulla, ce ne dimentichiamo nel giro di poche ore e il giorno successivo si riparte da capo.