Ci sono confini visibili e invisibili. Dal 15 giugno nell’Unione Europea ne è caduto uno che forse non meriterà monumenti e date nei libri di storia, ma rappresenta un progresso concreto nella concezione attuale di cittadinanza: il roaming zero.
L’aereo ha appena toccato il suolo, decelerando verso l’area dei bus che porteranno i passeggeri del volo Milano-Berlino verso l’edificio di Tegel, il piccolo aeroporto cittadino nella capitale tedesca. Tutti accendiamo i nostri smartphone: seduti e mischiati fra loro ci sono italiani ma non solo, e tutti proveranno per la prima volta l’esperienza del nuovo roaming a costo zero: ovunque tu sia il piano tariffario stabilito con la compagnia telefonica ti segue. Resta con te, nelle tue tasche. Un passaporto di dati valido negli stati membri.
GOODBYE roaming charges! ADIEU frais d’itinérance ! TSCHÜSS Roaming-Gebühren!
No more #roaming fees when travelling in the EU. 🎉 pic.twitter.com/VVjNAGMHEU— European Commission (@EU_Commission) June 15, 2017
Il cellulare si accende, in pochi istanti carica il sistema operativo poi subito un messaggio della mia compagnia telefonica: “benvenuto in Germania!”. La compagnia aerea dice la stessa cosa, in inglese, quella telefonica in italiano tiene a precisare che la tariffa applicata per chiamate, sms e traffico dati Internet sarà equivalente a quella nazionale. Sono, a tutti gli effetti, ancora a casa. In Europa. Il device me lo ricorda ogni volta che controllo lo schermo. Campeggiano cinque tacche di telekom.de, ho acceso il roaming e il traffico dati, ricevo notifiche Whatsapp e Messenger, scarico immagini e video, controllo le notizie col browser, apro Instagram. Lo strumento di controllo del consumo di dati mi conferma ciò che l’Europa ha garantito: non c’è differenza in termini di costi. Se fossi nel resto del mondo pagherei la mia chiamata a casa (“sono arrivato, sì, il tempo è bello, sì mangio, sì ti chiamo stasera”) 3 euro al minuto. Invece a Berlino, come a Londra, Parigi, Bruxelles, Madrid, nulla.
Le piccole differenze
Se l’uomo non esiste, come diceva Silone, se non nella costante lotta per superare i suoi limiti, si può dire quasi la stessa cosa per i confini, le frontiere. Anche se queste ultime sono più dure a morire e soggette agli andirivieni della storia. Questi ultimi anni, ad esempio, hanno rivalutato il protezionismo, reazione semplificata alla stagnazione economica e al flusso migratorio dai paesi del continente africano e asiatico; fenomeni che hanno riacceso in Europa e negli Usa il desiderio di alzare barriere, imporre dazi, rallentare il traffico di merci e di persone. Fermiamoci, la globalizzazione fa paura.
Come si stabilisce, allora, un progresso? Cosa fa pensare che l’apertura vince sulla chiusura? Che una innovazione è puro miglioramento? A volte possono essere le piccole cose, le piccole differenze. Il roaming zero in questo senso non va sottovalutato perché contiene una immagine potente, legata – come dovrebbe essere ogni abbattimento di un confine – a un concetto di identità. Pensiamoci: l’Unione Europea iniziò con lo scambio di carbone e acciaio, perché erano quelle risorse a fondare la ricostruzione; poi arrivarono le istituzioni politiche, perché nel secondo dopoguerra si visse il periodo della politica forte; stabilita l’area di Schengen e la cooperazione, è arrivata la moneta unica, nell’epoca delle grandi decisioni finanziarie e globali.
Dai primi anni duemila ad oggi cosa ha davvero stravolto le nostre vite? Esatto: lo smarphone, Internet nelle tasche di tutti, i social network. I nostri account partecipano alla costruzione della nostra identità, non meno di quanto fanno (o facevano) il lavoro e la fede politica. La cancellazione del roaming è perciò il corrispettivo millennial di quelle cadute, di quelle aperture, di quelle cooperazioni dei precedenti quarant’anni. Un passaggio che concretizza un vantaggio reale nell’essere cittadini europei, e un simbolo facile da condividere per spiegare agli scettici che l’Europa potrà anche essere un po’ burocratica, complicata, inefficiente, ma restarne fuori, ad oggi, appare ancora, e grandemente, insensato, come ci appaiono sempre gli ex confini quando abbiamo il permesso di attraversarli.
A Berlino ne sanno qualcosa. Mentre dalla radio del taxi danno la notizia della morte di Helmut Kohl, passo da piazza Rosa Luxemburg, qualche centinaio di metri dopo una fila di alberelli di metallo rosso su una piccola cicatrice sull’asfalto. Lì prima c’era un muro, ma questa è un’altra storia.
O forse la stessa.