E alla fine, dopo tanta (troppa?) attesa, Mark Zuckerberg ha preso parola per tracciare un solco sull’affare Cambridge Analytica. Finora erano piovute infatti soltanto accuse, richieste di chiarimento, inviti a comparire per spiegare cosa fosse accaduto. I silenzi del fondatore di Facebook erano andati in parallelo con la caduta in borsa del gruppo. In serata la prima risposta, il primo statement ufficiale pubblicato direttamente sulla piattaforma incriminata, sulla bacheca del suo fondatore, con quello che suona come un sincero, quanto ovattato, mea culpa.
Cambridge Analytica secondo Mark Zuckerberg
La ricostruzione di Zuckerberg parte dal 2007, quando prende corpo la visione di una piattaforma alla quale qualsivoglia app avrebbe potuto interfacciarsi per ricavare dati e fornire servizi agli utenti. Nel 2013, però, il primo ostacolo: Aleksandr Kogan ha creato la famigerata app oggi al centro del caso Cambridge Analytica. L’assenza di limiti consentiva ad app di questo tipo di drenare un altissimo numero di informazioni da decine di milioni di contatti in tutta facilità, il che andava chiaramente frenato per evitare che la situazione sfuggisse di mano (se già, con il senno del poi, non lo era da tempo).
Nel 2014 ecco l’intervento che Zuckerberg nel suo post reclama due volte: per accedere alle informazioni degli utenti serve l’autorizzazione dell’utente stesso, evitando così che il download di poche app possa diventare una testa di ponte per drenare dati su community vastissime e senza controllo alcuno. In effetti questo tipo di limitazione ha dato corpo ad un’idea di privacy più precisa, che Facebook non ritiene comunque sufficiente né definitiva. E che anche il tempo ha continuato a giudicare come fragile, parziale e superficiale.
Nel 2015 il caso giunge negli uffici Google: l’operato di Aleksandr Kogan viene raccontato dai giornalisti del Guardian e l’app viene immediatamente bannata dalla piattaforma. Al tempo stesso, però, i dati dovevano essere distrutti e così non sarebbe invece avvenuto: Facebook sostiene di diventare parte lesa nel momento stesso in cui scopre che i dati raccolti dall’app di Kogan sono in realtà stati esportati, venduti e sfruttati per finalità non consone con quelle per cui erano stati originariamente raccolti. La colpa è però in tal caso altrui: Facebook avrebbe chiesto, preteso e ottenuto le necessarie certificazioni per cui i dati sarebbero stati effettivamente distrutti. I fatti dimostrano che, nonostante tali presunte certificazioni circolate tra le parti, la distruzione non è in realtà mai avvenuta.
Nessun cenno viene fatto al possibile sfruttamento dei dati per fini elettorali: Zuckerberg si tiene lontano dalla vera patata bollente, ripiegando sui tecnicismi per tener lontano Facebook almeno da quelli che sono effetti collaterali sui quali tenterà in ogni modo di non aver a che fare.
Ora Zuckerberg promette interventi ulteriori, tra i quali uno strumento ancor più chiaro e trasparente circa le app con le quali si sta interagendo ed i flussi di dati correlati. Ma nel portare avanti tale promessa firma anche un chiaro mea culpa: “la nostra missione”, spiega il fondatore del gruppo, è quella di costruire una piattaforma salubre e conservare con cura i dati che gli utenti vi depositano. Visto che così non è stato, il gruppo si assume le relative responsabilità e promette ulteriori interventi migliorativi.
Mark, questo non basta
Le promesse stavolta non basteranno. In discussione, malgrado troppe analisi catastrofiste sul caso, non c’è il destino di Facebook (il cui valore delle azioni è tornato immediatamente a rimbalzare), ma più in generale quello dei social media. Nei prossimi mesi ad essere ridefiniti saranno i rapporti di forza tra questi ultimi e gli stati nazionali, quelle entità che in un modo o nell’altro proprio i giganti del web hanno più volte messo in discussione con dinamiche finanziarie, regolamentative e sociali tali da disegnare una nuova geopolitica internazionale. Nel momento in cui è sorto anche solo un lontano sospetto tangibile di un’influenza dei social media sulla solidità delle democrazie, però, il pudore non è più stato sufficiente: il caso è deflagrato e non potrà chiudersi con un nulla di fatto.
La risposta formale di Zuckerberg dovrà essere ora declinata nelle varie forme in cui è stato interrogato in queste ore il fondatore del social network: le promesse di solerte intervento dovranno essere accompagnate dalle spiegazioni per i tardivi interventi sul caso, cercando di recuperare tanto la fiducia degli utenti, quanto quella delle istituzioni.