La battaglia tra Google e Oracle non è ancora finita. Alphabet, società a cui fa riferimento Big G, ha infatti chiesto alla Corte Suprema degli Stati Uniti di invertire una sentenza che ha fatto risorgere un caso di copyright da miliardi di dollari, risalente al 2010. La multinazionale del web ha sollecitato l’organo sovrafederale a ribadire il concetto che il linguaggio di programmazione Java Oracle utilizzato per creare il sistema operativo Android era consentita dalla legge sul copyright, quasi vent’anni fa.
Una giuria si era già espressa in modo simile con Google nel 2016, ma la Corte d’appello statunitense aveva annullato tale sentenza nel marzo del 2018, ponendo le basi per un processo con danni monetari a favore di Oracle, dai cui laboratori era uscito il famoso codice di sviluppo Java. Secondo Mountain View, la decisione dello scorso anno, pro Oracle, poteva causare un rallentamento costante dell’innovazione in ambito digitale. Molte altre compagnie infatti avrebbero lasciato perdere il linguaggio concentrandosi su altro, evidentemente non standard universalmente riconosciuti e condivisi. Il consigliere generale di Oracle, Dorian Daley ha ricordato che oramai la storia è chiusa:
La preoccupazione sull’innovazione nasconde il vero obiettivo di Google: che sia consentito utilizzare con capacità illimitata il lavoro originale e prezioso degli altri, per ottenere un notevole guadagno finanziario.
Il contenzioso riguarda la protezione del copyright da estendere al linguaggio di programmazione, che Google ha sfruttato per progettare Android. Secondo Big G, Oracle tenta di raggiungere royalties per l’uso non autorizzato delle API, che invece non dovrebbe essere incluse nella legge sul diritto d’autore perché strumenti essenziali per la creazione di software. La questione ha già prodotto diversi rovesci di medaglia: in seguito a un verdetto nel 2012, un giudice federale a San Francisco si era schierato con Google, affermando come le API non fossero soggette al copyright. Il Circuito Federale è stato in disaccordo nel 2014, portando a un secondo processo concluso nel 2016, anche questo ad appannaggio di Google, indicata come utilizzatrice in maniera equa e corretta del linguaggio (il cosiddetto “fai use”).
Controcorrente l’ultimo incontro del 2018, nel quale si sentenziava che il “fair use” non entrava nel merito di un’attività svolta da Google per scopi commerciale e di business, basati su copie identiche delle API Java. Una storia che è ben lontana dal considerarsi risolta.