Vada per gli interessi politici, vada per quelli economici, ma nella diatriba che sta coinvolgendo il Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti, Huawei, Google e le altre aziende immesse nella black list Usa, a rimetterci siamo noi.
Nelle ultime ore il caso è diventato problematico, a tratti surreale, anche per le dichiarazioni sin troppo rassicuranti delle compagnie interessate. Huawei dice di non preoccuparsi, Honor lo stesso (che di Huawei è “figlioccia”), mentre Google tace e Washington pure.
L’antefatto lo conosciamo: con il più recente ordine esecutivo che riguarda il commercio interno, Donald Trump ha di fatto chiuso le porte del mercato a stelle e strisce alle organizzazioni straniere considerate nemiche della patria. Nella lista nera ci sono, per ora, Huawei e ZTE, ma non è detto che in futuro non possano entrarne molte altre. Chi? Non si contano: Xiaomi, Oppo, OnePlus, tutto il gruppo TCL e persino i droni di DJI. Del resto, fatta la norma, allargarla non sarà che un piacere per il tycoon.
Come spesso accade in questi casi, in assenza di chiarificazioni concrete, la gente è allo sbando. Cè chi sui social scherza, chi meno, dicendo di voler dare via il proprio Huawei che mira a diventare un fermacarte di lusso. Scherzi si, ma non troppo. La cinese ha già spiegato che i dispositivi esistenti, tutti quelli in commercio, saranno aggiornati regolarmente ma non è così semplice. Gli Usa, Google in primis, invita a ragionare, spiegando che un ban è un ban: da quella firma in poi Big G si prende tutto il diritto di chiudere supporto, API e ogni tipologia di collaborazione con le società problematiche, per gli States almeno.
Certo, dagli Usa arrivano 90 giorni di “congelamento”, in cui il gigante di Shenzen potrà ritornare sui suoi passi ma la domanda è: questi non hanno risolto la questione in quasi due anni e pretendono di farlo in un mese e mezzo? Assurdo.
Poi c’è la questione Honor. Un paio di giorni fa, a Londra, la compagnia legata a Huawei ha svelato la gamma 20, compresa di Honor 20, 20 Pro e 20 Lite. Per ora vedremo nei negozi solo il primo e, forse, l’ultimo, visto che il Pro non ha ricevuto la certificazione Android prima del ban di Trump. Potrà ottenerla nei 90 giorni suddetti ma l’interrogativo è d’obbligo e non di facile determinazione.
Torniamo a noi, gli utenti. Che si fa? Continuiamo ad affidarci a questi smartphone belli e performanti con il rischio che un giorno non avremo più su Android (il male minore) e, peggio, le Google App, oppure aspettiamo fiduciosi in una risoluzione? E se la vicenda si ripresenterà in futuro, un fulmine a ciel sereno come quello attuale? Diteci cosa fare perché davvero non lo sappiamo.