Le novità sono tante. Perfino troppe. Il punto essenziale è che l’amministrazione di Donald Trump, che si giocherà la riconferma alla Casa Bianca nel 2020 con ottime probabilità di spuntarla contro un fronte democratico al momento iperframmentato, vuole tornare sulla Luna entro il 2024. Praticamente domani mattina. Per farlo ha non solo impresso una svolta alla gestione della Nasa con la (contestata ma confermata) nomina prima di Jim Bridenstine e la conseguente apertura alle compagnie private – incaricate di fare prima e spendere meno che in passato – ma anche ammantato la nuova epopea del necessario colore di sfida. Se durante la Guerra Fredda il confronto era con l’Unione Sovietica che aveva bruciato tutti con Jurij Gagarin, primo uomo a volare nello Spazio, il 12 aprile 1961 sulla Vostok 1, oggi è la Cina. Che nonostante i ritardi degli anni passati è riuscita a piazzare una sonda sul “lato nascosto” della Luna.
Lo scorso gennaio Pechino ha infatti spedito con successo la navicella cinese Chang’e-4 (prende il nome della dea della Luna nella mitologia cinese) e il rover Yutu-2 “coniglio di giada”, contenuto al suo interno, sul nostro satellite. Sono atterrati nelle vicinanze del polo Sud lunare ma – appunto – sulla “faccia nascosta” della Luna. Ed è stato un record. Sono stati in effetti i primi oggetti a raggiungere l’emisfero non osservabile dalla Terra per una ragione ben precisa: la sincronica rotazione lunare. Doppia sfida con beffa annessa, fra l’altro, visto che gli Stati Uniti tentarono una simile impresa nel 1962 e fallirono, salvo poi concentrarsi sulla trionfale epopea del programma Apollo che li avrebbe portati ben oltre un “semplice” robottino.
Le ragioni del forcing sui tempi, oltre che per l’anniversario dello sbarco sulla Luna – cinquant’anni il prossimo 20 luglio dai passi di Neil Armstrong e Buzz Aldrin dell’Apollo 11 – sta appunto in una serie di operazioni e progetti messi in campo dai cinesi. Su tutti, per esempio, quella stazione spaziale di Pechino che dovrebbe essere lanciata in orbita entro il 2022, quasi in simbolica contemporanea con l’uscita di scena della mitica ISS, la Stazione spaziale internazionale che sempre lo stesso Trump ha deciso di non voler più sostenere economicamente dal 2025.
In fondo, dal 1993 la Nasa ha investito circa 87 miliardi di dollari per costruire e mantenere in esercizio la piattaforma, a cui ne andranno aggiunti altri quattro o cinque per il prossimo quinquennio abbondante. Decisamente troppi: meglio metterli sul piatto dell’esplorazione lunare e sul progetto Lunar Orbital Platform-Gateway con l’obiettivo di spostare il fronte della sfida sulla Luna e oltre l’orbita terrestre bassa senza lasciare ai cinesi il merito di uno sgradito avvicendamento. Ad eccezione delle missioni Apollo, infatti, tutti i viaggi spaziali umani si sono svolti in orbita bassa e anche le stazioni come la Mir o la Iss hanno volato o sono collocate a circa 400 km dalla Terra.
Fra l’altro, l’Agenzia spaziale cinese (China Manned Space Agency-Cmsa) e l’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari dello spazio extra-atmosferico (Unoosa) hanno annunciato proprio il mese scorso di aver selezionato i primi esperimenti internazionali che saranno condotti sulla stazione spaziale “made in China”. Delle 42 proposte presentate ne sono state approvate nove che coinvolgono ben 23 istituzioni di 17 Paesi di cui sei in via definitiva e tre con riserva. A quest’ultima terna appartiene il progetto “Baridi Sana – High performance Micro 2-Phase Cooling System for Space Applications” presentato dall’università La Sapienza di Roma, In Quattro (spin off dell’Enea) e Machakos University del Kenya. Insomma, la macchina cinese è caldissima: mesi fa Wu Yanhua, vice capo dell’agenzia spaziale nazionale cinese, aveva spiegato senza troppi giri di parole che “l’obiettivo della Cina è quello di avere un posto primario tra le maggiori potenze spaziali del mondo entro il 2030”.
Le mosse di Trump e del suo amministratore Bridenstine, e la loro nuova corsa alla Luna, vanno dunque lette in questa prospettiva: abbattimento dei costi con l’apertura a compagnie private che si accollino gran parte delle complicate fasi di ricerca e sviluppo – è il caso di Space di Elon Musk o di Blue Origin di Jeff Bezos, ma non solo – nonché di proposta per i nuovi vettori e le nuove capsule per gli astronauti (fra cui la prima donna sulla Luna entro il 2024 col programma Artemis); ulteriore risparmio con la costruzione di razzi riutilizzabili, anzitutto per voli commerciali e di servizio; progressivo abbandono della Iss con reinvestimento di quei fondi sul Gateway lunare – comunque da costruire insieme alle agenzie spaziali di mezzo mondo condividendone i costi; rilancio della narrazione spaziale. In questo caso anche attraverso una serie di iniziative, come quella messa in piedi proprio in vista del 20 luglio dalla Nasa, consistita in un programma per raccogliere le memorie di chi quell’estate del 1969 c’era, di chi ricorda in prima persona anche se era piccolo, di chi se l’è fatto raccontare, di chi era invece già grande e in grado di comprendere la portata epocale di quella missione.