Chi offre un alloggio a San Francisco senza farne la propria attività principale deve necessariamente iscriversi a un registro: la norma, annunciata nel maggio scorso, è entrata in vigore nella giornata di mercoledì. Immediato l’impatto su Airbnb, con la piattaforma che conferma come il numero di host locali si sia pressoché dimezzato. Il numero delle abitazioni e degli appartamenti è passato da oltre 10.000 a circa 5.500 unità.
Già nel 2014 la città californiana aveva introdotto alcune restrizioni per questo tipo di business, limitando il periodo massimo in cui mettere a disposizione di chi viaggia una stanza o un appartamento in affitto. Misure ben accolte da gestori di hotel e strutture ricettive tradizionali, che hanno però inevitabilmente un effetto negativo sui servizi legati alla sharing economy. Se ne è discusso anche in Italia, con l’accusa mossa da Federalberghi nei confronti proprio di Airbnb. Problemi simili per gli host olandesi, che nella capitale Amsterdam sono autorizzati ad offrire gli alloggi per non più di 30 giorni all’anno.
Una questione spinosa, che per dinamiche ed evoluzione richiama alla mente ciò che sta accadendo nel territorio della mobilità con operatori come Uber, al centro di polemiche e proteste un po’ in tutto il mondo. Bisogna fare i conti con un nuovo modello economico, per il quale emerge un gap normativo da colmare. Un compito difficile che spetta al legislatore: l’obiettivo è trovare un delicato equilibrio tra gli interessi di tutti i protagonisti del mercato, che offrendo tipologie differenti di servizi si rivolgono allo stesso pubblico. Di seguito, in forma tradotta, le parole affidate da un portavoce della piattaforma alle pagine di SF Chronicle.
Guardiamo avanti con l’obiettivo di costruire il nostro business a San Francisco sulla solida base degli host attivi, seguendo regole chiare e un processo di registrazione ben definito.