Se è vero com’è vero che la rete è, oltre al resto, un’enorme calderone in cui la società globale riflette, più o meno distorti, tutti i suoi vizi e tutte le sue virtù, allora è chiaro che anche questa novità c’era da aspettarsela: il pizzo è sbarcato in rete. Sono sempre più numerosi gli hacker che attaccano siti Internet, li bloccano, li clonano, e poi si offrono per garantirne la sicurezza. A pagamento, naturalmente.
A lanciare l’allarme è stato, circa una decina di giorni fa, Umberto Rapetto, comandante del GAT (Gruppo Anticriminalità Tecnologica), un reparto speciale della Guardia di finanza impegnato a combattere i reati informatici.
Il fenomeno, pare, è piuttosto recente, ma minaccia di estendersi con ritmi esponenziali: il GAT ha infatti rilevato ben 825 violazioni di siti web in tutto il mondo, Italia compresa, nel solo mese di febbraio. Tenendo presente che, come per il racket tradizionale, generalmente “chi tira fuori i soldi non parla”, è facile immaginare che il numero reale di attacchi sia ancora più ampio, e verosimilmente destinato ad allargarsi.
Naturalmente non sono i siti “bucati”, in sé, a fare notizia (fenomeni del genere sono vecchi quanto il web): la vera novità consiste nelle richieste di denaro che sempre più spesso accompagnano le incursioni. La procedura, benché il fenomeno riguardi le zone più diverse del pianeta, è in molti casi più o meno la stessa: dopo l’attacco, i gestori del sito ricevono una e-mail con una riproduzione della pagina alterata dai pirati e un messaggio che dice più o meno così: “Ecco cosa è capitato questa volta: se in futuro volete evitarlo, contattateci”.
Gli autori sono per lo più riconducibili a due grandi “squadre”: gli hacker che fanno attività di monitoraggio sui siti colpiti e poi contattano le vittime offrendo il loro aiuto, senza però essere loro i responsabili dell’incursione (come gli Attrition.org, con sede a Phoenix, Arizona), e quelli che invece attaccano i siti al solo scopo di chiedere successivamente del denaro in cambio della protezione.
Autentica patria dei nuovi pirati informatici sembra essere l’America centrale. “E non è un caso” commenta Rapetto “sappiamo benissimo che i narcotrafficanti colombiani, per esempio, controllano le loro piantagioni con sofisticatissimi impianti satellitari. Le grandi mafie mondiali hanno capito che le nuove tecnologie possono essere sfruttate per guadagni illeciti, e si stanno lanciando su questo nuovo affare”. Altro focolaio molto attivo è il mondo islamico: i Pakistani di Gforce, per esempio, hanno sferrato 204 assalti solo negli ultimi 10 mesi, avviando anche, nelle passate settimane, una vera e propria guerriglia informatica con Israele.
In Italia, per ora, lo scenario sembra assai meno inquietante. Secondo Rapetto, gli hacker italiani sono per ora soprattutto “goliardici che attaccano la rete per divertirsi e non hanno l’estorsione tra i propri obiettivi”. Già, ma per quanto ancora?