Tra i diversi controlli condotti in parallelo dalla Commissione Europea sul profit shifting delle multinazionali del web, ce n’è uno anche su Amazon del quale scrive il Financial Times. L’accusa, infatti, sostiene ci sia una infrazione delle norme e si concentra sull’attività della sede in Lussemburgo. Che i due fattori siano collegati o meno, la società di Jeff Bezos è anche entrata per la prima volta nella top ten del difficile commercio al dettaglio americano, con fatturato e crescita molto incoraggianti.
Amazon non è mai stata tanto sulla cresta dell’onda, dove gli schizzi però aumentano e anche i rischi, le notizie buone e quelle cattive. Quella buona: la società di Seattle è entrata nella top ten del commercio americano, dopo essere stata all’undicesimo posto per fatturato è balzata al nono grazie ai dati certificati dall’ultimo Kantar Retailers report che la attestano a 44 miliardi di dollari di fatturato con una crescita impressionante del 17% nel 2013. Un impatto sul retail che ormai non può essere ricondotto soltanto all’online: la strategia di Bezos è quella di dare tutto a chiunque e in qualunque posto, dal cibo fresco al materiale da costruzione, entrando come brand nel circuito dei retailer fisici.
In altre parole, sta nascendo un retailer globale per ogni esigenza dell’acquirente, anche se ovviamente questa crescita esponenziale non è sufficiente a raggiungere i colossi del retail americano, come Wall-Mart e Kroger (ai primi due posti della classifica con rispettivamente 334 e 93 miliardi di dollari). Nessuna però sta crescendo come Amazon, la nuova entrata.
I guai europei
E poi la notizia cattiva. La vicenda dell’indagine di Bruxelles è nota: la Commissione Europea sospetta che le tecniche di profit shifting del “panino” Lussemburghese-Irlandese siano qualcosa di più di un escamotage che sfrutta le lacune legislative del vecchio continente, ma si profilino come aiuti di stato, che comporterebbe una infrazione e l’intervento della Commissione. Per questo il serio Financial Times titola “Amazon embroiled in EU tax crackdown” (Amazon coinvolto nel giro di vite fiscale nell’UE) e non parla di evasione fiscale. L’Europa, in realtà, non sta mettendo pressione all’azienda – non direttamente – ma al Lussemburgo (ironia della sorte, paese dell’attuale presidente Jean-Claude Juncker), perché vuole capire che tipo di trattamento fiscale c’è tra paese e azienda. In linea di principio, quando la Commissione constata l’esistenza di aiuti di Stato illegali, si può costringere l’azienda a rimborsare tutti i ricavi persi.
La Amazon EU Sarl guadagna profitti sulle vendite del rivenditore online in tutta Europa – 13,6 miliardi nel 2013 – perché possiede l’inventario ed elabora i pagamenti. L’anno scorso ha dovuto 2,1 miliardi a un’altra società lussemburghese, la Amazon Europe Holding Technologies, per l’uso della proprietà intellettuale. Il FT spiega che gli ultimi conti presentati da Amazon EU Sarl mettono in evidenza l’efficiente struttura fiscale in Lussemburgo, che ha ridotto il tax rate complessivo di 8 punti percentuali l’anno scorso scendendo al 31,8% in base ai documenti depositati dalla società controllante.
Questo tipo di architteture fiscali che puntano sul cosiddetto transfer-pricing, cioè la riduzione dell’imponibile tramite trasferimenti tra società dello stesso gruppo, hanno suscitato molte critiche, soprattutto se si considera il momento di crisi in tutta Europa, che ha imposto misure di austerità e tagliato le prestazioni sociali. L’idea che alcune grandi multinazionali paghino poche tasse rispetto ai guadagni ha alimentato il sentimento negativo nei confronti delle aziende tech statunitensi, e ora si traduce in un controllo normativo più puntiglioso in tutta l’Europa. Gli esiti di queste indagini, però, sono tutt’altro che sicuri: il commissario alla Concorrenza, Joaquín Almunia, spera di avere il dossier completo prima della fine del suo mandato, ma è più probabile che tutto venga rimandato alla revisione delle norme fiscali internazionali per le società digitali prevista dall’Organizzazione per la Cooperazione Economica e lo Sviluppo (l’OCSE), di cui fanno parte tutti i paesi coinvolti nell’affaire, Irlanda, Paesi bassi, Lussemburgo, e che già da tempo sta lavorando al tema della tassazione.