Finiscono le vacanze e i tempi tranquilli, tra chi le ha dimenticate da un pezzo e chi se le lascia alle spalle da poco: c’è chi torna in città e chi riprende a lavorare.
Quest’estate, sotto l’ombrellone, come penso voi tutti, mi sono dedicato alle solite letture poco impegnate, quelle da riviste classiche (settimanali o mensili).
Ho notato con mia grande sorpresa che non poche volte si parlava di 2.0: tra interviste ai cantanti su MySpace a chi considerava Facebook il nuovo mezzo per fare amicizia.
Chiunque parla di iPhone o di social-network, chiunque può dare un giudizio, chiunque può criticare in maniera casuale quello che prende di mira.
In mezzo a tutto questo ho scorto, forse in malafede, forse erroneamente, un filo conduttore di ignoranza e una considerazione assai negativa dei nuovi strumenti.
Che la novità sia sempre stata tacciata come un fenomeno di cui dubitare è noto da tempo.
Montemagno (CEO di Blogosfere) utilizza, nelle sue conferenze, l’analogia, a mio avviso molto calzante tra Internet e libri: un tempo, infatti, i libri erano visti come un qualcosa di negativo perché creavano una dimensione di “isolamento” in chi li leggeva.
Mi pare che i luoghi comuni in circolazione (soprattutto in Italia) sul “social-networking” siano simili: tra chi contrappone una vita virtuale ad una fatta di “amicizie reali”, senza nemmeno sapere cosa sia LinkedIn o su quali principi si basino servizi come Facebook o MySpace, e chi accusa senza nemmeno sapere esattamente cosa sia questo o quel servizio, verosimilmente senza nemmeno averne mai provato uno.
Chi dice che la vita di un social-network non possa avere ripercussioni reali? Per come la vedo io di virtuale, inteso come qualcosa di assolutamente svincolato dal mondo concreto, in una rete sociale c’è ben poco.
Sono dell’opinione che spesso si sentenzi troppo senza indagare le reali implicazioni di un fenomeno: siano esse sociali, informatiche, comunicative, educative o relazionali.
Come sostiene il sociologo Manuel Castells: “Non esistono rivoluzioni tecnologiche senza trasformazioni culturali”.