Google ha comunicato i tre motori di ricerca alternativi che verranno mostrati in una schermata sui nuovi dispositivi Android. Il cosiddetto Android Choice Screen è stato imposto dalla Commissione Europea dopo aver comminato una multa di 4,3 miliardi di dollari per abuso di posizione dominante. L’azienda di Mountain View ha quindi deciso di effettuare un’asta ogni quattro mesi per scegliere i provider.
Google aveva annunciato le novità in merito alla schermata di scelta lo scorso 2 agosto 2019. La Commissione Europea non aveva specificato come implementare il “choice screen”, quindi Google ha scelto quella che considera la soluzione più equa per i provider. I più maliziosi affermano invece che l’asta è stata organizzata per recuperare i profitti persi dalla scelta di un motore di ricerca alternativo. In pratica, i provider dovranno versare una somma di denaro pari alla quarta offerta più alta ogni volta che l’utente li sceglie nella schermata mostrata durante la configurazione iniziale dei nuovi smartphone e tablet.
I tre vincitori dell’asta (diversa per ogni paese europeo) verranno elencati in ordine casuale insieme a Google. Il provider scelto dall’utente diventerà quello predefinito per le ricerche in Chrome. Se non presente sul dispositivo, l’app verrà scaricata dal Google Play Store. La schermata apparirà a partire dal 1 marzo 2020. I tre provider rimarranno invariati fino al 30 giugno 2020, ovvero fino alla successiva asta.
In Italia le tre scelte sono: DuckDuck Go, Info.com e Qwant. I primi due sono presenti in tutti i paesi europei. Le altre opzioni sono Qwant, GMX, PrivacyWall, Seznam, Yandex e Bing. Quest’ultima scelta è possibile solo nel Regno Unito, dove Microsoft ottiene probabilmente più profitti dall’advertising. Diversi provider hanno criticato il sistema adottato da Google. Secondo Qwant e DuckDuckGo chiedere soldi per mostrare le alternative è un abuso della posizione dominante e solo un modo per fare profitti a spese dei concorrenti. Ecosia non ha partecipato in quanto ritiene che “l’asta sia in contrasto con lo spirito della sentenza della Commissione europea del luglio 2018”.