Un’indagine del New York Times pone ancora in rilievo la questione delle applicazioni per smartphone che, senza chiarirlo, tracciano la posizione degli utenti. Lo scopo? Vendere tali informazioni agli inserzionisti e compagnie pubblicitarie, per profilare meglio le persone e creare categorie merceologiche sempre più precise.
Anche se spesso gli sviluppatori e le software house affermano che i dati raccolti restano anonimi, il Times ha dimostrato che, una volta esaminati, gli archivi mostrano effettivamente un certo range di elementi sensibili, che invadono la privacy. Ad esempio, entrando nel merito di un database che conserva le posizioni di clienti di circa 75 società, raccolte dal 2017, si evince che dai punti sulla mappa è stato possibile identificare gli individui, rintracciandoli in modo efficace mentre svolgevano le loro attività.
Un conto poi sono le informazioni condivise deliberatamente, come i check-in sui social in modalità Foursquare e un altro recepirli quasi di nascosto, per finalità terze. Non sembra così complicato oggi legare un ID di una cella telefonica a un numero di cellulare e da questi risalire all’intestatario della scheda. Con lo stesso ID si può seguire l’utente nei suoi spostamenti e, volendo, anche acquisti online.
E con i dati di localizzazione esaminati dal Times, aumentati di nuovi elementi circa ogni due secondi, qualcuno disposto a investire del tempo per scoprire dettagli intimi sulle persone c’è sempre, magari per ricattare il prossimo utilizzando informazioni sulla salute o sulle abitudini extra-coniugali.
Si potrebbe obiettare che questo è il prezzo che paghiamo, o addirittura non paghiamo, per fruire di una pletora di servizi personalizzati (quanti di noi sarebbero ancora alla ricerca di un indirizzo su una cartina spiegazzata senza un comodo navigatore da taschino?) ma, allo stesso tempo, è anche questione di consapevolezza. I principali player del mercato digitale, a partire da Apple e Google, hanno adottato misure per limitare la frequenza con cui le app possono aggiornare i dati sulla posizione, ma senza mettere la pratica fuori legge o forzarne una chiusura. L’equilibrio è quello che manca, e il Gdpr è qui per affermarlo.