Le aziende della silicon valley colpite dallo scandalo internazionale del programma di sorveglianza PRISM hanno chiesto ufficialmente ai funzionari degli Stati Uniti di facilitarli nel compito, difficile, di discolparsi. Vogliono più trasparenza sulle richieste di dati degli utenti stranieri, sulle quali vige la riservatezza.
Si chiamano classified requests, le collezioni di dati che le società tecnologiche sono obbligate a cedere al governo secondo le norme dell’ormai famoso Foreign Intelligence Surveillance Act, il grimaldello in mano alla NSA che permette le sue azioni e ne sostiene l’assoluta legalità.
In attesa di capire meglio quanto sta accadendo, però, Google (la prima ad averlo fatto), Facebook, Microsoft e Yahoo hanno chiesto con una lettera il permesso di rivelare i dettagli su queste richieste. E anche se al momento è escluso dallo scandalo, anche Twitter ha sostenuto questa iniziativa dando il proprio appoggio:
Completely agree with @Google, @SenJeffMerkley & others—we'd like more NSL transparency and @Twitter supports efforts to make that happen
— Alexander Macgillivray (@amac) June 11, 2013
I trasparency report erano parziali
Se le cose dovessero stare come dicono le aziende, tutto il significato e il valore dei report sulla trasparenza andrebbe rivisto. In un lungo articolo di Claire Miller sul New York Times, le dichiarazioni dei portavoce delle società coinvolte sembrano essere, da un lato, il tentativo di recuperare un po’ di immagine e di scaricare le responsabilità sul governo, dall’altro una ammissione che in realtà i trasparency report erano soltanto il prodotto di ciò che poteva essere legalmente mostrato, e nient’affatto tutto quanto il governo Usa aveva richiesto. Tant’è che alla luce del caso PRISM assume un inquietante dato di verità il disinteresse di Facebook verso questo strumento, che oggi si scopre non essere in grado di mostrare la reale portata dei dati raccolti.
La difesa delle aziende
Le società coinvolte, come già emerso nel dibattito all’Europarlamento, potrebbero dover rispondere di possibili maxi-multe da altri paesi e continenti, per non parlare della perdita di credibilità per una vicenda in cui invece si sentono vittime. Il capo dell’ufficio legale di Google, David Drummond, ha già ribadito in più di una occasione che Mountain View non ha mai permesso alla NSA un accesso «né diretto né indiretto» ai suoi server e non ha mai consentito alla NSA di installare apparecchiature nei suoi locali.
Nella lettera aperta inviata al procuratore generale, Eric Holder, Drummond parla di Google, ma il concetto vale anche per tutte le altre aziende, che hanno aderito all’invito:
Vi chiediamo di contribuire a rendere possibile la pubblicazione nel nostro report quantitativo anche le richieste della sicurezza nazionale, comprese quella della FISA. I numeri di Google mostrerebbero chiaramente come il nostro rispetto di queste richieste è molto lontano delle affermazioni fatte. Google non ha nulla da nascondere.
Anche Facebook, tramite Ted Ullyot, ha esortato il governo Usa «a consentire di includere informazioni circa le dimensioni e la portata delle richieste di sicurezza nazionale che riceviamo». Anche in questo caso, viene negata ogni ipotesi di “porta di servizio”, di corridoio speciale per la NSA. D’altra parte, lo stesso Zuckerberg ha definito PRISM «scandaloso» in un suo post.
La tesi del Guardian
Nonostante le retifiche, le molte altre informazioni che stanno uscendo da questo caso (anzi forse proprio grazie a queste) il Guardian, il quotidiano britannico autore di questo formidabile scoop, continua a sostenere convintamente la propria tesi: le richieste della NSA, legali dal punto di vista americano, sono state accolte e soddisfatte da un sistema di storage nel quale le società caricavano i dati. Questa sarebbe la ragione per cui Twitter è rimasto escluso, perché si sarebbe rifiutato.