Il caso FBI vs Apple è sostanzialmente terminato con un nulla di fatto ed è forse questa la conclusione più significativa nello scontro legale tra le parti. La questione, infatti, è terminata prima ancora che i legali abbiano avuto da pronunciarsi su di una questione tanto controversa: l’FBI ha certificato il fatto che, come preannunciato, la vicenda ha avuto una soluzione tecnica senza dover necessitare di un passaggio presso l’assistenza nei laboratori di Cupertino. I dati cercati, insomma, sono stati ottenuti passando per un’altra strada: quella più diretta, e potente, dell’hacking.
L’FBI aveva tentato di forzare la mano sfruttando la legge: la richiesta era quella di una assistenza tecnica da parte di Apple affinché i dati contenuti su di un iPhone (precedentemente posseduto da uno degli attentatori della strage di San Bernardino di fine 2015). Apple aveva risposto picche: non avrebbe mai ceduto alle pressioni dell’FBI perché riteneva lecito e necessario tutelare la privacy dei propri utenti, evitando di rendersi protagonista di una azione di hacking sui propri stessi software. L’FBI in realtà non chiedeva ad Apple di aprire l’iPhone per consegnare i dati, ma soltanto di annullare quelle barriere di protezione che impediscono l’uso della forza bruta nella ricerca dei dati e delle password. Tuttavia far ciò equivale allo spalancare le porte degli iPhone di tutto il mondo (peraltro non soltanto all’FBI, ma allo stesso modo a qualunque regime), minando alla base la sicurezza degli smartphone prodotti dal gruppo e il rapporto di fiducia con i propri utenti.
In occasione del lancio del nuovo iPhone SE, Tim Cook non ha perso occasione per ribadire pubblicamente, e con forza, la posizione assunta dall’azienda della mela morsicata: nessun aiuto da parte di Apple e ostruzionismo in tribunale per opporsi alle richieste dei Federali. Passano poche ore e la sensazione della doccia gelata sul caso si fa largo: l’FBI lascia intendere che non servirà alcuna leva giuridica per accedere all’iPhone poiché una soluzione tecnica stava per arrivare senza alcun aiuto da Cupertino.
Si avveravano così le profezie di Snowden, McAfee ed altri ancora: non serve che sia Apple a consegnare le chiavi del proprio software poiché in realtà sarebbe bastato cercarle. Non è questione di backdoor, ma di semplice e naturale vulnerabilità dei sistemi. Ad oggi non è chiaro chi abbia offerto la soluzione (ma si parla di una azienda israeliana), né quale sia stata la procedura perseguita, né tanto meno se il tutto possa rappresentare un pericolo per l’utenza comune. Quel che trapela è che l’iPhone è però stato aperto e i dati prelevati, rendendo così inutile il processo.
Il processo termina qui, senza vincitori né vinti. Il caso invece è destinato a perdurare ed a questo punto Apple, pur avendo salvato la faccia di fronte alla propria utenza, si trova a dover fare i conti con un exploit in grado di aprire i propri sistemi e, peggio ancora, con la sensazione per cui bastino poche settimane di ricerca per abbattere le barriere di protezione di iOS. Policy firmate dalle istituzioni in passato, delle quali fa menzione la Electronic Frontier Foundation nel proprio report sul caso, costringono gli inquirenti a rendere edotta Apple della vulnerabilità sfruttata, così che il gruppo possa risolverla e smontare il rischio di eventuali attacchi alla sicurezza degli utenti.
Il Dipartimento di Giustizia non sembra voler mollare la presa ed a stretto giro di posta ha fatto sapere che non demorderà sulla questione di principio: in casi estremi servono estremi rimedi per consentire l’accesso agli smartphone contenenti importanti verità su terrorismo e altre questioni. Su questo Apple non mollerà la presa ed è molto semplice intuire che Tim Cook non è pronto a fare alcun passo indietro: le prime dichiarazioni dopo le comunicazioni dell’FBI sono una presa di posizione che ribadisce l’impegno nei confronti di privacy e sicurezza, senza alcuna concessione a future pressioni ulteriori. La questione di principio è però temporaneamente accantonata e procrastinata a data da destinarsi: la verità è che l’iPhone di San Bernardino è stato aperto con una tecnica hacker e che i dati sono stati prelevati senza il bisogno di un pronunciamento della Corte.
Nelle settimane passate non erano pochi a parlare di una sorta di sofisma tale per cui FBI ed Apple avrebbero messo in scena una sorta di teatrino nel quale il gioco delle parti era noto: l’FBI che forza la mano, Apple che si difende, ma il tacito assenso tale per cui tanto una porta sul retro c’è senza il bisogno di dichiararla. La conclusione della vicenda lascia in piedi anche i sofismi dei complottisti, perché alla fin fine una sentenza non è arrivata e di fronte ad una questione potenzialmente rivoluzionaria, in realtà, non è cambiato nulla. Non a titolo ufficiale, quantomeno, confinando la verità al “dietro le quinte” del non-detto.