Apple tornerà davanti alle corti per una nuova causa sull’utilizzo di un marchio, dopo quella intentata da Microsoft per lo sfruttamento del nome “App Store“. A essere preso di mira è uno dei tanti servizi “i” di Cupertino, ovvero il recente iBooks. Lo store virtuale di Apple dedicato alla distribuzione di libri, infatti, avrebbe rubato il nome a una compagnia già esistente.
È l’editore John T. Colby, fondatore di Brick Tower Press e di J. Boylston & Company, a denunciare la Mela al Corte Distrettuale di Manhattan. Il nome “ibooks” sarebbe di competenza esclusiva di Byron Preiss, un editore newyorkese che, dalla metà degli anni 2000, ha pubblicato una catena di oltre 1.000 titoli sotto questo marchio. Il progetto “ibooks“, inoltre, è tutt’altro che sconosciuto ai media, considerando come nel 2004 abbia ottenuto il riconoscimento di “Piccolo editore dalla più veloce crescita” dalla rivista Publisher Weekly.
Secondo il contenuto della causa legale, Apple avrebbe perso il diritto di utilizzare la parola “iBook” con l’abbandono della produzione dei suoi noti laptop, cessata tra il 2004 e il 2005. La “s” aggiuntiva dello store, così come del progetto del publisher statunitense, detterebbe poi un’importante differenza sostanziale. È solo a partire dal 2010, infatti, che Apple ha iniziato a utilizzare “iBooks” intendendolo nell’accezione di “libro virtuale”, perché prima è sempre stato associato al singolare alla semplice definizione di un dispositivo elettronico.
Un dato, tuttavia, potrebbe vanificare l’opera dell’intraprendente editor. Cupertino, infatti, avrebbe ottenuto ogni diritto di sfruttamento del marchio a partire dal 1996 quando, a seguito di una precedente causa legale, ha stretto accordi con Family Systems Limited Company per l’utilizzo esclusivo del marchio. Una sorta di assicurazione temporale, a conti fatti, che Apple potrebbe utilizzare a proprio favore in aula.
Con tutta probabilità, la questione legale si risolverà con un accordo extragiudiziario, come ormai consuetudine nel modus operandi della Mela. Chissà, però, che non sia proprio quella singola “s” a dettare il buono e il cattivo tempo della legalità di Apple.