Apple ha depositato il suo ricorso alla Corte Europea, dichiarando che la decisione della Commissione di imporre 14 miliardi di dollari di tasse è completamente errata perché va contro lo stato di diritto. Le sue argomentazioni ora sono pubblicate in Gazzetta.
Tim Cook aveva già detto la sua a proposito dell’arretrato calcolato dai funzionari del commissario Vertstager. Non si tratta di una multa, infatti, ma di un percorso di recupero delle tasse non pagate allo stato irlandese, che peraltro ha già dichiarato di non volerle perché sarebbe un’implicita ammissione di aver collaborato alla creazione di un sistema di attrazione d’impresa sleale nei confronti degli altri stati membri dell’Unione. Questo tipo di percorso è perciò criticabile anche e soprattutto nei termini del calcolo: secondo Apple, l’imponibile attribuito al ramo irlandese dell’azienda “controllata” è stato applicato erroneamente, prendendo in considerazione una cifra globale.
Un altro punto (forse meno convincente) del ricorso è la negazione di possibili raffronti: secondo Apple è pregiudizievole confrontare l’intesa Irlanda-Apple con altre intese fiscali nell’Unione, anche con multinazionali molto grandi. Il vero cuore del ricorso sono però le pagine dove Cupertino critica pesantemente la Commissione per non averle concesso l’opportunità di una difesa adeguata, stralciando prove per la difesa, stringendo i tempi per le perizie. Un’accusa piuttosto pesante:
La decisione di avvio del procedimento non ha espresso in modo chiaro la principale argomentazione. Se lo avesse fatto, la Apple avrebbe potuto produrre elementi di provaietr che avrebbero potuto e dovuto modificare l’esito. (…). La Commissione ha violato la certezza del diritto ordinando il recupero sulla base di un’interpretazione imprevedibile della normativa sugli aiuti di Stato; non ha esaminato tutti gli elementi di prova rilevanti, in contrasto con il suo obbligo di diligenza; non ha motivato la decisione in modo adeguato e ha ecceduto la propria competenza ai sensi dell’articolo 107 TFUE tentando di snaturare il sistema irlandese dell’imposta sulle società.
Irlanda ed Apple strade separate
Poco prima di Natale, il governo irlandese ha espresso in modo formale la sua protesta e le sue contro-argomentazioni alla decisione della Commissione Europea. Non collimano perfettamente con quelle di Apple, essendo più legate alla sovranità fiscale del paese, ma in sostanza sia l’azienda che lo stato irlandese sono in disaccordo con questa cifra enorme calcolata di imponibile non tassato in questi anni. Un caso estremamente delicato che ha visto, peraltro, la separazione dei destini dei due, che hanno legali diversi e lavorano a strategie diverse: fatto vissuto male dall’opinione pubblica irlandese infuriata per i due milioni di dollari di spese legali dello stato ai quali Apple non ha partecipato.
Perché Apple protesta, in sintesi? Dietro le lunghe argomentazioni, c’è un puntiglio: la commissaria Verstager ha ritratto Apple come un evasore fiscale che non contribuisce alla società, questo perché considera le controllate come aziende che nascondono profitti. Apple tuttavia ha più volte dimostrato che il concetto di imponibile fiscale non può corrispondere alle filiali internazionali, che pagano in una giurisdizione o in un’altra, bensì quello che Apple in ultima analisi paga a livello globale, che comprende ovviamente le tasse di rimpatrio degli Stati Uniti. E si parla di tasse al 35%. Apple è costretta a portare i soldi indietro negli Stati Uniti perché non può effettuare direttamente il pagamento dei dividendi dalle sue operazioni Ireland-based per i suoi azionisti. E con Trump è scontato che le cose di rafforzeranno. Che non ci sia sincronia tra Usa ed Europa sugli investimenti che Apple dovrebbe e potrebbe fare con questi soldi è affare dei due super continenti, non di Cupertino, secondo questo ricorso.
Un altro tema che fa pensare alla Apple che il ricorso possa andare bene (ma ci vorranno anni prima di venirne a capo) è che delle 130 pagine del provvedimento, un terzo è rappresentato da citazioni delle raccomandazioni dell’OCSE sull’elusione fiscale. Ma l’OCSE è un’autorità persuasiva, non legislativa, è come la Croce Rossa o il World Economic Forum, e perdipiù le raccomandazioni sono datate 2010, mentre gli anni contestati risalgono al periodo 1992-2007: se anche le linee guida dell’OCSE fossero considerate pertinenti, non potrebbero avere un effetto retroattivo.