In molti ricorderanno il fenomeno Blue Whale, vero e proprio caso mediatico gonfiato ad hoc dalla stampa nostrana e dal tam tam sui social network, che lo scorso anno per settimane ha fatto discutere e tenuto col fiato sospeso milioni di genitori, in apprensione per i propri figli. I suicidi di due ragazzini (12 e 13 anni) avvenuti a distanza di pochi giorni a fine giugno in Arabia Saudita sembrano essere riconducibili alle sue dinamiche e il paese, in risposta, ha deciso di mettere al bando decine di videogame.
Sono in totale 47, per l’esattezza, quelli inclusi nell’elenco dei giochi proibiti. Tra questi figurano alcune produzioni AAA del calibro di Grand Theft Auto 5, Assassin’s Creed II, The Witcher 3: Wild Hunt, Agents of Mayhem, Attack on Titan 2, Dissidia Final Fantasy NT, God of War III, Resident Evil 6, Dragon’s Dogma e Wolfenstein II: The New Colossus. La misura è stata imposta dal General Commission for Audiovisual Media e risulta essere operativa dal 2 luglio, anche se la notizia è circolata a livello internazionale solo nella giornata di oggi. Poco chiare le ragioni della scelta, poiché non sono state fornite spiegazioni dettagliate e non si punta il dito specificatamente contro il tasso di violenza dei giochi.
Il fenomeno Blue Whale non ha nulla a che vedere con l’ambito videoludico, almeno stando alle informazioni (non sempre trasparenti) che lo riguardano. Si tratta invece di un macabro gioco basato sulla manipolazione psicologica dei soggetti, perlopiù di giovane età, in cui un “amministratore” assegna 50 sfide da compiere, una al dì, sempre più difficoltose e sempre più pericolose, fino ad arrivare all’ultimo step che secondo quanto riportato da alcune testate consisterebbe nel togliersi la vita gettandosi da un palazzo. La decisione presa dall’ente saudita pare dunque incomprensibile, almeno sulla base delle informazioni oggi disponibili.