Dopo il primo occhio bionico al mondo, approvato proprio nei giorni scorsi negli Stati Uniti per poter essere utilizzato in trapianti sugli esseri umani, dalla Svizzera giunge un ulteriore organo in versione artificiale che potrebbe presto avvicinare ancora di più l’uomo alle macchine. Al Politecnico di Losanna è stato infatti sviluppato un prototipo di arto bionico in grado di fornire semplici ma importanti sensazioni tattili al paziente, replicando seppur in maniera grezza il senso del tatto.
Gli arti robotici progettati fino ad oggi, infatti, hanno svolto esclusivamente il compito di afferrare e spostare oggetti, senza che l’utente potesse ricevere alcun feedback sensoriale al contatto con gli stessi. Quanto proposto invece dal Prof. Silvestro Micera, di chiare origini italiane, prevede un collegamento dell’arto con i nervi ulnare e mediano, consentendo così una comunicazione diretta con il cervello: proprio quest’ultimo è infatti il mezzo con il quale l’arto può essere comandato, in quanto la comunicazione può avvenire in ambedue le direzioni.
Il braccio bionico progettato in Svizzera, insomma, consente lo scambio di informazioni sia per il comando dei motori che lo azionano, sia per inviare al cervello informazioni sensoriali raccolte da appositi dispositivi installati nei polpastrelli artificiali. Tali informazioni al momento risultano essere non eccessivamente precise e quindi profondamente lontane da quelle restituite dalle dita umane al contatto con gli oggetti. Trattasi tuttavia di un importante passo in avanti, una base sulla quale andare a costruire protesi di nuova generazione in grado di replicare un nuovo aspetto di primaria importanza.
Oltre al miglioramento del feedback sensoriale inviato dall’arto al cervello, poi, vi sono ulteriori ostacoli da aggirare, come ad esempio l’invasività del collegamento adottato per far comunicare i due organi. Ad oggi, infatti, l’arto può essere impiantato e mantenuto attivo per non più di un mese, oltre il quale sono richieste operazioni di manutenzione in alcuni casi particolarmente scomode. Secondo il Prof. Micera, saranno necessari almeno altri due anni di studi intensivi e di ricerca prima di poter vedere tale protesi in pianta stabile su di un paziente.