Non vi sono solo Thom Yorke e David Byrne fra gli scettici della musica in streaming. A quanto pare, la sempre più alta popolarità di sistemi per l’ascolto gratuito e legale di brani starebbe ferendo un settore complesso quanto quello delle produzioni jazz e classiche. Fra accuse incrociate e dichiarazioni al fulmicotone, la domanda sorge però lecita: la colpa è della tecnologia o del sistema di compensazione voluto dalle case di produzione?
Spotify, Pandora, iTunes Radio, Deezer, Beats Music e molti altri ancora: i servizi di streaming si moltiplicano di giorno in giorno, sfidandosi l’un con l’altro a colpi di feature. Un mercato in netta crescita, considerato come Nielsen SoundScan abbia rilevato un aumento del 42% nei primi mesi del 2014 rispetto all’anno precedente, un settore che fa dell’advertising il proprio carburante: grazie alla pubblicità, case discografiche e artisti vengono ricompensati e l’utente può ascoltare musica legalmente.
Gli effetti sarebbero positivi anche in termini di pirateria, con un calo sensibile delle violazioni del copyright, ma sul fattore compensi non vi è stato mai troppo accordo. I prezzi per ogni singolo stream sono davvero contenuti – si vocifera dagli 0,06 agli 0,30 centesimi a seconda dell’artista, il numero di ripetizioni e altri indicatori che variano da servizio a servizio – e gran parte di quanto raccolto sembra non finire direttamente nelle tasche dei musicisti. E se il problema è evidente per i grandi nomi del pop e del rock – secondo Salon, 400.000 stream su Spotify generano 1.764 dollari di guadagni, 2 milioni su YouTube circa 1.248 – la situazione è ancora più drammatica per i generi di nicchia.
Sebbene lo streaming sia stato presentato come un nuovo e interessante mercato proprio per gli artisti emergenti o per i generi meno popolari, così pare non essere. Zoe Keating, una musicista molto seguita di San Francisco, lamenta entrate annuali da Spotify e affini inferiori all’8% dell’intero guadagno. Christina Courtin, una talentuosa violinista con diverse produzioni all’attivo, non considera proprio lo streaming come una fonte di guadagno, sottolineando come negli ultimi cinque anni l’evoluzione tecnologica abbia ridotto fino allo stremo la capacità di sopravvivere dal proprio lavoro. Una posizione confermata anche da Richard Danielpour, un celebrato compositore con contratto esclusivo con Sony Classical, il quale spiega come la vendita di CD abbia sempre consentito guadagni sufficienti, ma con l’avvento dello streaming tali compensi siano praticamente diventati inesistenti, “il nulla”.
Puntare il dito contro Spotify, iTunes Radio e affini sarebbe fin troppo semplice: si tratta di servizi che, all’aumentare degli utenti e degli investitori, fisiologicamente vedranno crescere i compensi in royalties. Le colpe sarebbero quindi da assoggettare alle case discografiche, le quali tratterrebbero la gran parte dei compensi lasciando l’artista a bocca asciutta. È quanto lascia intendere Ted Gioia, esperto di musica storica e pianista jazz:
«I musicisti delle categorie di nicchia devono aver paura degli accordi che le etichette stringono con i servizi di streaming. Le case discografiche potrebbero stabilire che non debbono condividere le royalties con quegli artisti le cui vendite non superano un certo ammontare. Se sei Lady Gaga o Justin Bieber, non hai problemi. In caso contrario, non riceverai royalties. La natura di questi accordi è che i ricchi diventano ancora più ricchi, mentre i poveri ancora più poveri.»
La situazione sarebbe ancora più complessa per le etichette indipendenti. Mentre le major possono concedere i loro interi cataloghi per contratti milionari, e ricevere poi un pagamento per ogni stream, le indie raramente vengono preventivamente ricompensate per caricare le loro librerie in Rete. Così si crea un divario dove i grandi gruppi assorbono tutte le risorse disponibili, lasciando poco o nullo spazio alle altre realtà del panorama musicale. E non è nemmeno tutto: quando si parla di jazz e classica, infatti, gli spiccioli ottenuti dallo streaming devono poi essere suddivisi per un nugolo nutrito di persone, tra compositori, direttori d’orchestra, esecutori, proprietari dei diritti originali e molto altro ancora. Uno scenario ormai insostenibile, come spiega Pi Recordings: se fino a pochi anni fa l’appassionato del genere spendeva dai 120 ai 300 dollari l’anno in acquisto di CD, oggi non mette mano al portafogli grazie alle formule onnicomprensive dello streaming, dove può trovare qualsiasi produzione – bootleg compresi – a costo zero. Il progresso tecnologico non si può certo fermare, ma che fare allora?