Una legge battezzata Surveillance Devices Act, promulgata in Australia ed appena entrata in fase operativa, si è posta al centro del dibattito che divide legalità e privacy riportando in auge l’argomento su svariati media del settore IT. La legge prevede che la polizia australiana possa, senza l’intervento garante di alcun organo giudiziario, installare piccole spie all’interno del computer di persone sospettate di un qualche reato per controllare in segreto l’attività svolta davanti al monitor.
La legge legalizza dunque un uso specifico di software quali trojan o spyware: la polizia assume su di sé maggiori poteri e viene così estesa una facoltà che il diritto contemplava già per le tecnologie pre-Internet (un esempio su tutti: le intercettazioni telefoniche).
La legge prevede che le persone “spiabili” sono quelle sospettate solo di reati minori, per cui la pena detentiva non raggiunga la soglia dei 3 anni. Ne consegue una serie di riflessioni dai risvolti non secondari. Innanzitutto una certa esperienza con le tecnologie dovrebbe complicare l’opera delle forze dell’ordine, in quanto un sistema ben protetto non dovrebbe risultare facilmente accessibile dall’esterno. Inoltre tale sistema potrebbe potenzialmente rendere molto più semplice il compito di coloro i quali potrebbero volersi avvalere di tale facoltà per stringere ulteriormente il cerchio attorno al file sharing (l’esempio è liberamente ispirato alle 754 denunce che nelle ultime ore la RIAA ha nuovamente portato a segno contro il mondo del P2P).
Da più parti la legge è vista come una mera formalità in grado di definire una situazione che, con l’emergere delle nuove tecnologie, aveva messo in crisi le vecchie definizioni. La legge dovrebbe offrire alle forze dell’ordine più potere ma soprattutto dovrebbe definire con una certa regolarità i margini di intervento di polizia e magistratura.