Sono quattro e contano quanto tutti gli altri messi assieme: Google, Apple, Facebook e Amazon sono i veri padroni dell’advertising online. Come emerso dallo State Of Media 2013, un cambiamento del mercato pubblicitario che ha e continuerà ad avere nel prossimo futuro conseguenze molto visibili sull’informazione mondiale. Un articolo del Nieman Lab, a firma Ken Doctor, inventa questo acronimo, GAFA, per dare il nome a questa nuova realtà con la quale i media devono imparare a fare i conti.
Un bellissimo e lungo articolo che ha il merito di riassumere il quadro complessivo e fornire qualche risposta al quesito principale: come si può sfruttare il GAFA a proprio favore? Secondo l’autore di Newsonomics: Twelve New Trends That Will Shape the News You Get, bisogna partire da un principio, che ricorda molto l’ottimo lavoro di Vittorio Zambardino: anche se i colossi della rete e della tecnologia concorrono tra loro, sono comunque in grado di mantenere un peso specifico molto alto nel mercato. Ad esempio Google ha accettato di pagare un miliardo di dollari per diventare il servizio di ricerca di default di Apple.
Il secondo principio, derivante dal primo, spiega che gli editori si spartiscono solo un terzo della torta degli introiti pubblicitari, quindi se si vogliono incrementare i profitti ci sono solo due strade: ingrandire la torta, senza però modificare la proporzione; oppure lavorare con le prime cinque società pubblicitarie digitali, nessuna delle quali è di proprietà di una società editoriale: Google (che da sola vale il 41%), poi Yahoo, Facebook, Microsoft e AOL.
I dati raccontano di società che sono avanti anni luce rispetto ai detentori di contenuti e prodotti: gli inserzionisti anche locali preferiscono le ricerche sponsorizzate di Google, gli annunci targhetizzati di Facebook. Amazon ha un sistema di vendita in questo momento irraggiungibile, che da solo vale il 39% dell’intero mercato americano. Apple è in grado di fare pressioni su editori – di libri, di musica – per il prezzo e a volte è incappata nell’accusa di aver cercato e ottenuto un trust che mettesse tutti d’accordo.
Questa combinazione ha messo al tappeto nomi che sembravano eterni e mandato in soffitta i vecchi paradigmi. Le reazioni osservate nello studio sono due: difensiva e offensiva. La tecnica difensiva per eccellenza è il paywall: “recintare” il contenuto, tenendolo fuori da indicizzazione e social e chiedendo il pagamento di un abbonamento. Quella aggressiva è ovviamente cercare partnership con questi nomi, accettando di lasciare qualcosa sul tavolo:
Un numero crescente di editori di giornali e riviste hanno abbracciato l’edicola di Apple. Sì, devono dare il 30 per cento del fatturato e ottengono solo una parte dei dati dei clienti che vorrebbero, ma è un prezzo, per ottenere nuovi clienti, che sono disposti a pagare. Chiunque può vendere abbonamenti – Apple, Amazon o Google, che prepara la sua estensione di Google Play per le sottoscrizioni – viene accolto come partner. E aspettatevi anche Facebook entro 18 mesi.
Google, inoltre, è una realtà a parte. La concentrazione di pubblicità che rappresenta oggi è ai limiti del monopolio. E se in Europa ci sono ancora punti di vista alternativi, oppositivi (come in Germania o Francia), negli Usa è ormai passato il concetto join-’em-if-you-can’t-beat. L’autore raccomanda saggezza:
Lo stesso rapporto con Google intorno ai prodotti meno core, come Hangout, per il coinvolgimento della comunità, porta a testare alternative alla monetizzazione. In sintesi, l’industria delle notizie ha maturato la convinzione della sua perdita, il suo posto nel mondo ridotto. In un certo senso, una guerra è stata persa. Ora è il momento della convivenza.