Il buco dell’ozono sta per chiudersi. Il significato di questa frase è grandissimo per una generazione intera, quella che negli anni ’80 ha visto radicarsi la propria sensibilità ecologica attorno allo spauracchio che prendeva piede con sempre maggior allarmismo: il buco dell’ozono era stato notato e misurato, era la prova tangibile degli effetti deleteri delle attività dell’uomo sugli equilibri della Terra. Per la prima volta, soprattutto, era chiaro come il mondo intero fosse co-responsabile di un danno reale (non solo potenziale) e che le conseguenze peggiori avrebbero potuto ricadere proprio sull’uomo.
Il buco dell’ozono è quindi molto più di un assottigliamento di uno strato fondamentale dell’atmosfera per tutta quella che è la biosfera sottostante. Il buco dell’ozono è l’icona di una colpa, il simbolo di una responsabilità, il fulcro su cui decenni di battaglia ecologica hanno fatto leva. E oggi il cerchio inizia a chiudersi, mutando la paura di allora in fiducia: l’umanità, quando messa con le spalle al muro, ha la forza di cambiare. Oggi, almeno oggi, c’è il dovere di crederci e di opporre ottimismo alle fredde statistiche. Dopo il buco dell’ozono, infatti, le minacce si sono moltiplicate: il concetto di “effetto serra” è sorto in quasi contemporanea, ma l’accresciuta consapevolezza circa i legami tra ambiente e salute hanno fatto emergere anche molti altri aspetti su cui concentrare giocoforza le attenzioni.
Le cause del buco dell’ozono furono presto identificate: il mondo scoprì i CFC (Cloro Fluoro Carburi) e iniziò a guardare con sospetto agli spray ed ai congelatori. C’era un nesso diretto tra le tecnologie in uso e le conseguenze sull’ambiente, una ricaduta troppo evidente per non costringere tutti ad una presa di consapevolezza sulla necessità di agire. Nel 1987 arrivò quindi la firma: tutto il mondo si impegnò con il Protocollo di Montreal a ridurre l’uso di quelle sostanze che, immesse nell’atmosfera, andavano ad assottigliare lo strato di ozono che protegge il pianeta (con particolare importanza soprattutto in qualità di filtro per i raggi ultravioletti, particolarmente pericolosi per l’uomo e per l’epidermide). Tutto ciò avviene a circa 20/30 km dal suolo terrestre, laddove si concentra l’ozono nell’atmosfera.
La ratifica è ad oggi avvenuta in 192 paesi e porterà alla messa al bando totale delle sostanze indicate entro il 2030. Prima ancora di raggiungere questo obiettivo, un primo traguardo sarebbe ora stato raggiunto: secondo quanto evidenziato dai ricercatori del MIT e dalla University of Leeds (le firme sono di Susan Solomon, Diane J. Ivy, Doug Kinnison, Michael J. Mills, Ryan R. Neely III e Anja Schmidt), l’assottigliamento dello strato di ozono avrebbe iniziato ad invertire la propria rotta e il trend positivo sarebbe dunque prossimo ad essere innescato. Se a livello internazionale si continuerà ad operare secondo quanto previsto dal trattato internazionale di fine anni ’80, il buco dell’ozono è pertanto destinato a chiudersi ripristinando una situazione di normalità entro il 2050. Le misurazioni dello strato sono molto complesse poiché la concentrazione di ozono muta in base a latitudine e molte altre condizioni (è sufficiente un’eruzione vulcanica, ad esempio, per incidere sui pattern di misurazione), ma il modello è sufficientemente attendibile per far sostenere agli scienziati che il trend positivo sia stato ormai innescato. Il buco dell’ozono, conseguenza dell’assottigliamento estremo laddove già minore era lo spessore dell’ozonosfera (sul polo antartico), si starebbe quindi ricucendo con effetti positivi in tutto il globo.
Si tratta di un messaggio di indubbia importanza. Mentre ancora si discute circa i protocollo di Kyoto e il riscaldamento globale continua a lanciare ultimatum, il mondo si trova di fronte ad un successo: quando si collabora e si agisce in modo radicale per invertire la rotta, l’uomo è in grado di riuscire nei propri intenti. La scienza insegna però come i tempi della natura e del clima non siano quelli dell’uomo: bastano pochi anni per creare un danno di estrema pericolosità, ma servono generazioni intere per ripararlo.
Il caso del buco dell’ozono (non risolto, ma comunque sulla buona strada) deve essere dunque considerato come una case history di valore inestimabile: un lavoro iniziato negli anni ’80 terminerà presumibilmente a metà del secolo. Ogni ritardo ulteriore con il riscaldamento globale, insomma, si ripercuoterà inevitabilmente sulle generazioni che seguiranno, le quali non avranno la possibilità di rivalersi sulle generazioni precedenti e vivranno l’urgenza di arginare le possibili devastanti conseguenze che il pianeta si troverà a vivere.