Ieri l’Autorità Garante delle comunicazioni ha approvato i criteri che determineranno, da parte del Ministero dello Sviluppo Economico (MISE), i contributi annuali per l’utilizzo delle frequenze del digitale terrestre. Il voto però è stato a maggioranza, perché il presidente Cardani ha votato contro e Antonio Nicita si è astenuto. Una spaccatura che lascia intravedere una battaglia politica: sullo sfondo, il futuro del modo in cui si vedranno i contenuti tv in Italia.
Nella riunione di ieri, l’Agcom è partita dall’aggiudicazione delle frequenze stabilite dal bando di giugno (un valore empirico, in realtà, visto che queste gare vanno regolarmente deserte) e ha deliberato tre cose: l’aumento del contributo annuale degli operatori; un incentivo per l’utilizzazione di tecnologie innovative; il trattamento differenziato per gli operatori locali. L’impianto della delibera, però, ha lasciato molti strascichi e non è riuscito a ricomporre la frattura che ha visto il presidente Angelo Cardani da una parte e il consiglio dall’altra, con il commissario Agcom, il professor Antonio Nicita, che si è astenuto solo dopo l’approvazione di alcune correzioni, a suo parere migliorative anche se non sufficienti. Per quale ragione un contrasto su questo tema? È solo tecnico?
https://twitter.com/AntonioNicita/status/517078340298375169
Contributi progressivi e parità
Sul suo blog, Nicita ha voluto precisare a poche ore dal voto il senso della sua posizione: contrario per almeno quattro ragioni a questo regime contributivo, ha voluto riconoscere il voto del collega Antonio Preto che ha consentito di eliminare dalla delibera uno degli elementi a suo avviso più inaccettabili della proposta così com’era giunta in consiglio: l’attuazione di un meccanismo progressivo di contribuzione che finiva per trattare allo stesso modo gli operatori con forte potere di mercato e i nuovi entranti. Causa anche di un possibile deficit dello Stato.
Il tema della invarianza di gettito era uno dei problemi principali al quale si aggiungeva il tema fondamentale della metodologia economica per la valorizzazione delle risorse (…) in un quadro concorrenziale nel quale la promozione del pluralismo deve sempre affiancarsi al rispetto dei principi di non discriminazione, ragionevolezza e proporzionalità.
In termini meno tecnici, secondo Nicita – che si è sempre distinto in questi mesi per le sue posizioni, anche nei confronti del regolamento Agcom – c’è una mancanza di chiarezza del quadro normativo che la delibera risolve poco, e riguarda la mancata asimmetria di trattamento tra i due operatori verticalmente integrati, eredi della posizione dominante congiunta nel mondo analogico; nella logica troppo stringente della non-discriminazione e del trattamento paritetico si è finito per non dare il giusto peso agli attori più importanti del mondo analogico che oggi contano in quello digitale. A Webnews Nicita racconta cosa è accaduto, dimostrando ancora una volta come, purtroppo, quando si toccano le televisioni per gli enti regolatori il clima diventa infuocato, contradditorio. Insomma, politico.
Intervista ad Antonio Nicita
Professor Nicita, authority che vota a maggioranza i criteri delle frequenze del digitale: non è un buon segno…
Me la cavo con una battuta: se il buongiorno si vede dal mattino…
La questione che ha sollevato è decisamente complicata, proviamo a semplificarla: è corretto dire che in Italia non c’è ancora una normativa adeguata per il digitale terrestre, dopo dieci anni?
È corretto, ed è grave. Ad esempio, la legge 16 del 2/3/2012 che ci consente di adeguare i contributi degli assegnatari delle frequenze, non chiarisce se il nuovo regime di contributo degli operatori di rete sostituisca o meno, interamente o parzialmente, quello basato sul fatturato complessivo degli erogatori di servizi audiovisivi. Quando si è lavorato ai criteri ho posto la questione, ma l’approccio dell’autorità è stato, a mio parere, quello peggiore: ha accolto la visione della non sostituzione del canone radiotelevisivo, considerando fornitori di servizi e proprietari di frequenze, nuovi ingressi e operatori dominanti, così diversi fra loro per fatturato, ma affidandosi alla progressività del contributo li ha posti tutti sullo stesso livello.
La nuova versione della delibera, dopo le modifiche che hanno raccolto le sue osservazioni già espresse in passato, in cosa corregge questo problema?
La delibera dà la possibilità al MISE di stabilire, con una certa flessibilità, la progressività di questi canoni, intervenendo per avere, entro cinque anni, la somma che lasci invariata la previsione finanziaria stabilita. In questa flessibilità, perciò, il ministero potrà anche – e io me lo auguro – considerare gli LCN, riportando dei criteri proporzionali.
I canali principali, quelli dei primi numeri, dovrebbero pagare più dei canali più alti e meno raggiungibili?
In proporzione sì, mentre oggi non è così. D’altra parte, quando è così difficile decidere cosa far pagare perché non si sa a quale titolo farlo, quanto e a chi, si arriva a queste soluzioni che per essere salomoniche diventano irrazionali.
Aiuterebbe sapere, una volta per tutte, chi sono gli operatori dominanti del digitale rispetto all’analogico?
Ovviamente. Invece anche in questo caso la situazione è come bloccata.
Sia il comunicato dell’Agcom che il suo, concludono con lo stesso auspicio: che il governo metta mano al riordino complessivo in materia di frequenze.
Mi sembra irrinunciabile se si vuole superare l’enpasse e avere un sistema di livello europeo basato sul pluralismo. In questo momento, bisogna dirlo con franchezza, enti e ministeri si rimpallano questi problemi in assenza di una legislazione coerente.
Il mercato televisivo italiano
Operatori dominanti, nuovi entranti, vecchie regole, fornitori di servizi, quadri normativi deficitari, arretratezza del paese. Il caso Agcom-digitale terrestre sembra ripetere la stessa combinazione delle telco in Italia. Le somiglianze sono dovute agli stessi problemi mai risolti, con in più una valenza politica peggiorativa (superfluo aggiungere quale: tutti sanno cosa significa televisione per la politica italiana da più di vent’anni) che spesso manda in tilt la capacità di regolamentazione di chi ha compiti di autorità garante.
Il risultato è inquietante. Nel 2014 l’Italia non ha un modello economico sul digitale terrestre, non riesce a creare le condizioni per bandi di assegnazione compiutamente trasparenti, non alimenta il pluralismo ma conserva le posizioni dominanti di mercato. Premessa, a lungo termine – sempre per quanto riguarda il settore dei media televisivi – del mancato arrivo, sinora, di piattaforme come Netflix e di fornitori di servizi disruptive. I padroni delle televisioni sono disposti a pagare qualcosa di più i canoni affinché tutto resti com’è (ammesso che paghino davvero di più), ma il prezzo più salato lo pagano i consumatori in termini di possibilità di accesso ai più svariati contenuti globali.