«Verrebbe da dire, parafrasando il titolo di una famosa commedia di Shakespeare, “too much ado about nothing” (“molto rumore per nulla”); e cioè non sembra, a questo giudice, di aver alterato in modo sensibile i parametri valutativi e giurisdizionali che presiedono alla decisione di casi quali quello trattato […]». Così il giudice Oscar Magi ha introdotto la chiosa al documento che racchiude le motivazioni alla sentenza del caso Vividown vs Google. Il documento si sviluppa su 110 pagine nelle quali il caso è stato riassunto nei dettagli per giungere alla conclusione con cui si tenta di spiegare quale sia il motivo alla base di una sentenza che tanto clamore ha raccolto e che ha inflitto 6 mesi di detenzione (con pena sospesa) ai responsabili David Carl Drummond, ex presidente del cda e legale di Google Italy, George De Los Reyes, ex membro del cda di Google Italy e Peter Fleischer, responsabile policy Google sulla privacy per l’Europa.
È lo stesso giudice a spiegare l’approccio che ha permesso alla sentenza di scaturire tra le maglie di un processo particolarmente complesso: «La condanna del webmaster in ordine al reato di illecito trattamento dei dati personali, infatti, non viene qui costruita sulla base di un obbligo preventivo di controllo sui dati immessi, ma sulla base di un profilo valutativo differente che è, come detto, quello di una insufficiente (e colpevole) comunicazione degli obblighi di legge nei confronti degli uploaders, per fini di profitto». Non dolo diretto, dunque, ma carenza nell’offerta del servizio. E tutto ciò con l’aggravante del fine di lucro e non soltanto per semplice noncuranza.
Continua inoltre il documento: «Il DL sulla privacy “copre” in modo legislativamente completo i comportamenti di chi si trovi nella situazione di “maneggiare” dati sensibili, e quindi non può essere trascurato nel momento in cui se ne appalesi la possibilità di intervento». Le mancanze del gruppo sono dunque comprovate e confermata è l’applicabilità della legge. Per questo la condanna può aver luogo: «Google Italy trattava i dati contenuti nel video caricati sulla piattaforma e ne era responsabile quindi per lo meno ai fini della legge sulla privacy. L’informativa (sulla privacy) era del tutto carente e comunque o talmente nascosta nelle condizioni generali del contratto da risultare assolutamente inefficace per i fini previsti dalla legge».
«La distinzione tra content provider e service provider è sicuramente significativa ma, allo stato ed in carenza di una normativa specifica in materia, non può costituire l’unico parametro di riferimento ai fini della costruzione di una responsabilità penale degli internet providers. Tuttavia questo procedimento penale costituisce un importante segnale di avvicinamento ad una zona di pericolo per quel che concerne la responsabilità penale dei webmasters: non vi è dubbio che la travolgente velocità del progresso tecnico in materia consentirà prima o poi di “controllare” in modo sempre più stringente ed attento il caricamento dei dati da parte del gestore del sito web e l’esistenza di filtri preventivi sempre più raffinati obbligherà ad una maggiore responsabilità chi si troverà ad operare in presenza degli stessi; in qeusto caso la costruzione della responsabilità penale (colposa o dolosa che sia) per omesso controllo avrà un gioco più facile di quanto non sia stato nel momento attuale». Il giudice conferma quindi la carenza legislativa sul tema ed auspica un sollecito intervento da parte del legislatore. Quel che viene proposta è però una interpretazione delle norme esistenti tale da consentire una attribuzione di colpe tale per cui internet non possa passare come il mezzo di libertà assoluta. Questo perchè, spiega ancora il giudice, «non c’è peggior dittatura di quella esercitata in nome della libertà assoluta».
Ed a sentenza pubblicata avviene quanto era lecito attendersi: Google presenterà appello in difesa del proprio servizio, del proprio modus operandi e dei propri dipendenti incriminati. Commenta il gruppo a caldo: «Stiamo leggendo le 111 pagine del documento di motivazioni del giudice tuttavia, come abbiamo detto nel momento in cui la sentenza è stata annunciata, questa condanna attacca i principi stessi su cui si basa Internet. Se questi principi non venissero rispettati, il Web così come lo conosciamo cesserebbe di esistere e sparirebbero molti dei benefici economici, sociali, politici e tecnologici che porta con sé. Si tratta di importanti questioni di principio ed è per questo che noi e i nostri dipendenti faremo appello contro questa decisione».