Una celebre ordinanza del tribunale di Bergamo nel 2008 imponeva il sequestro in Italia del sito Pirate Bay, un modo di procedere che aveva fatto discutere e che nel giro di poche settimane era stata però annullata in accoglimento del ricorso presentato dai legali italiani della Baia. Il tutto è in seguito giunto in Cassazione: qui la giurisprudenza ha emesso la propria definitiva sentenza esprimendo però una serie di principi, pubblicati in queste ore, a loro volta opinabili.
Il succo della decisione è nelle conseguenze immediate già note: l’ordinanza è stata annullata, il sito è sequestrabile, la documentazione torna al tribunale di Bergamo ove si potrà procedere contro la Baia. Anche se, e questo è il risvolto della medaglia che la sentenza sembra ignorare, non sarà un sequestro di grande efficacia per motivi tecnici noti a gran parte dei navigatori del web. Letteralmente: «sussistendo gli elementi del reato […] il giudice può disporre il sequestro preventivo del sito web il cui gestore concorra nell’attività penalmente illecita di diffusione nella rete Internet di opere coperte da diritto d’autore, senza averne diritto, richiedendo contestualmente che i provider del servizio di connessione Internet escludano l’accesso al sito al limitato fine di precludere l’attività di illecita diffusione di tali opere».
Ma nelle motivazioni (pdf messo a disposizione da Stefano Quintarelli) risiedono le insidie del ragionamento formulato dalla Cassazione. La decisione, ad esempio, presuppone un non meglio precisato “obbligo di vigilanza” da parte dei provider, un ruolo che gli stessi da tempo rifiutano: «fermo restando l’esonero da responsabilità per i fornitori di contenuti telematici riconducibili a terzi, sussiste però un obbligo generale di vigilanza del provider sui flussi telematici in transito sui propri sistemi. Altresì può ritenersi operante un principio di doverosa cooperazione del provider con l’Autorità Giudiziaria nell’ambito dei servizi erogati: principio che si traduce nell’obbligo di impedire o porre fine alle violazioni commesse quando la predetta Autorità lo richieda».
La Cassazione riconosce come il reato sia configurabile non per chi scarica, ma per chi porta online i contenuti sotto copyright. Ma si spinge oltre: «Se il sito web si limitasse a mettere a disposizione il protocollo di comunicazione per consentire la condivisione di file, contenenti l’opera coperta da diritto d’autore, ed il loro trasferimento tra utenti, il titolare del sito stesso sarebbe in realtà estraneo al reato. Però se il titolare non si limita a ciò, ma fa qualcosa di più, ossia indicizza le informazioni che gli vengono dagli utenti, che sono tutti potenziali autori di uploading, sicché queste informazioni, anche se ridotte al minimo, ma pur sempre essenziali perchè gli utenti possano orientarsi chiedendo il downloading di quell’opera piuttosto che un’altra, sono in tal modo elaborate e rese disponibili sul sito, il sito cessa d’essere un mero “corriere” che organizza il trasporto dei dati». L’attività della Baia, insomma, non è «agnostica» e va responsabilizzata per quel che permette. Cosa significhi “mettere a disposizione il protocollo di comunicazione”, però, non è dato a sapersi e, letteralmente, significherebbe aprire la strada a qualsiasi sito abiliti al download di torrent.
Nella sentenza si suggerisce un quadro della situazione nel quale il reato non sarebbe configurabile: anche l’indicizzazione, così come altri processi della distribuzione, dovrebbero essere decentrati. Nel momento in cui un sito come The Pirate Bay indicizza di proprio pugno i torrent, invece, facilita il reperimento degli stessi, ne aggiorna l’archivio e pertanto ne vengono configurate la responsabilità, la colpa, la punibilità. A questo punto la cosiddetta “mere conduit” sembra perdere di efficacia, trovando applicazione limitata nei fatti da nuove responsabilità riconosciute in fase di applicazione delle norme esistenti.
Altro principio espresso nella sentenza è nel fatto che, sebbene la Rete internet abbia di per sé natura transnazionale, una parte penalmente rilevante del reato viene commessa in un ambito esplicitamente nazionale. L’allocazione extra-nazionale dei server non sembra pertanto elemento importante ai fini del sequestro.
Dalla sentenza si evince come i provider abbiano da oggi una sorta di obbligo aggiuntivo nei confronti del traffico veicolato e che i siti web non possano più appellarsi con troppa semplicità al proprio semplice ruolo di tramite tra gli utenti ed i contenuti. Ne consegue un equilibrio molto più labile dal quale potrebbe pendere la regolarità di molti grandi nomi della Rete. Per colpire la Baia, insomma, probabilmente si è abbracciato un principio tale per cui vari servizi di hosting, oltre ai motori di ricerca, potrebbero doversi trovare a fare i conti con DNS limitati da una black list imposta agli italiani per legge e tramite gli ISP. Fermo restando il fatto che qualunque utente può scegliere, ad esempio, OpenDNS svincolandosi di fatto dal sequestro: la sentenza non parla mai di DNS, e non è chiaro pertanto fino a che punto si voglia/possa estendere la propria applicabilità.
Il caso specifico ha ricevuto la propria risposta. Il caso generale, invece, se possibile appare ancor più confuso di prima: la giurisprudenza italiana ancora una volta sembra trovarsi in difficoltà di fronte ai nuovi orizzonti che la Rete propone.