L’associazione Digital Champions non c’è più: sciolta, sfumata, liberi tutti. Al suo posto nasce un movimento di opinione, mentre il suo fautore, Riccardo Luna, guarda avanti col suo progetto – anche se non è chiaro quanto corrisponda agli obiettivi del progresso tecnologico nazionale. Stando ai numeri, questa avventura ha procurato una quantità di costi per eventi tutti finalizzati a uno scopo di cui non si riesce a misurare il risultato. Questa è l’eredità che al momento lascia l’associazione: i campioni digitali sono passati, hanno fatto tanti sorrisi, qualcuno di loro si è ritagliato il suo posto al sole, altri il famoso quarto d’ora di celebrità. E intanto l’Italia resta giustamente dov’era un anno fa: in fondo.
Nessuno si aspettava che l’associazione avrebbe cambiato le sorti della digitalizzazione del paese, né che risolvesse il digital divide o che improvvisamente mutasse l’ordine delle cose dentro un sistema cronicamente analogico. In tanti, però, avevano ravvisato fin da subito gli stessi mali che hanno attraversato tutta l’avventura del movimento e che oggi pendono sul giudizio che questa parentesi si è guadagnata.
Dopo Venaria fu subito chiaro che era cambiato il vento. C’era la necessità di accelerare – verbo apprezzatissimo nello storytelling nazional-startupparo – e lo stesso Luna, nominato da Renzi Digital Champion, carica europea più simbolica che di sostanza trasformata in Italia in un bizzarro modello distribuito, l’aveva spiegato in un post sul sito ufficiale dell’associazione. Sabato scorso il voto in assemblea: 139 si, 7 no e 6 astenuti: i Digital Champions non ci sono più. Nominato un liquidatore, i morosi della quota non sono più obbligati a corrisponderla e gli asset dell’associazione restano in mano a Luna. Questa la versione ufficiale: i Digital Champions hanno raggiunto il loro scopo (?), ora serve una struttura più liquida e snella, la mutazione è un passaggio obbligato. Verità alternativa? Un diktat dall’alto a cui si è forse risposto troppo frettolosamente (la proposta dello scioglimento è avvenuta con una mozione in forma orale non iscritta all’ordine del giorno), lasciando il nervo scoperto e abbandonando la sala senza chiudere la porta. Ma questo, tutto sommato, è il meno. Luna, nell’odierna intervista per Webnews, ammette che i DC, per come erano stati pensati, erano diventati più di ostacolo che altro. Troppo rigida, troppo complicato controllarla.
Troppi problemi per felicitarsene
Nel day after rimane il gusto amaro di qualcosa che sfugge, frettolosamente messo alla porta per una verniciata che metta a nuovo e copra le crepe accumulatesi nel tempo. Non sono certo mancati gli interventi di alcuni aderenti dispiaciuti per il valore politicamente negativo di questa decisione, ma è già un fiorire di apertura e inclusività. Eccoli i nuovi campioni digitali, fra chi rimane e chi sale tardivamente sul carro, all’interno di un gruppo su Facebook che apre i propri contenuti alla ricerca di nuovo consenso, nuove storie e nuovi “campioni”.
Diciamola tutta, quella dei Digital Champions è una vicenda un tantino noiosa: c’è poca gioia nel raccontarla. Troppo grave la situazione di questo paese, disastrato anche nel modello improntato dalla legge sulle startup. Il progetto Restart Italia, in seguito trasferito nel decreto del governo Monti del 2012, ha messo in campo con fatica qualche bello strumento, ma purtroppo ha creato anche i presupposti per un hype colossale nel quale sono finiti: incubatori autocertificati (poco più di appartamenti) in cerca di finanziamenti pubblici; schiere di qualcosatori che vivono di consulenze e startup-eventi; tonnellate di coworking che non accelerano nulla e anche loro vedono come prima fonte di introito la consulenza alle medesime startup; bandi regionali malgestiti; modelli di ingresso dei capitali che insistono ancora su fondi nazionali – mentre l’equity non è decollato, così come il venture capital – nei quali sono potenzialmente stritolati giovanissimi CEO di startup digitali che hanno un turn over di vita/morte spaventoso e sono sparati in un buco nero di fallimenti da cui sono invece protetti gli incubatori (che possono chiedere i soldi del fondo di garanzia).
Di tutto questo non è certo responsabile il solo Riccardo Luna, non avrebbe potuto farne propri i meriti così come non è possibile scaricargli addosso tutte le colpe o le mancanze. Il quale però ha dato un contributo notevole alla divisione del lavoro redazionale indispensabile per raccontare un mondo che non c’è invece di questo che ha tanti difetti strutturali e culturali. Tuttavia era importante si continuasse a credere che questa grande rivoluzione esistesse nei fatti: una narrazione tanto audace da aver ricevuto in occasione dei due report dell’OCSE e di Eurostat più di una critica, anche da giornalisti e testate che fino a quel momento avevano fatto da spettatori neutrali (evidentemente, però, diffidenti). Non si può raccontare il futuro come fosse il passato: solo il presente può validare certi passaggi.
Digital Champions: un bilancio
Il bilancio dell’attività dei Digital Champions pare, con un giudizio generoso, risicato. Qualche progetto di alfabetizzazione digitale, che in un anno non poteva certamente portare a risultati (perciò non si saprà neppure se fossero buone idee) e in più la presa in carico della pubblicizzazione della fatturazione elettronica: un obbligo di legge che riguarda una fetta piccolissima di popolazione e, nonostante l’importanza dello strumento, ha poco senso attribuire ai DC eventuali risultati in tal senso. A dirla tutta, anche le pratiche della fattura elettronica avrebbero potuto essere migliori (più orientate al cittadino che non allo Stato), ma trovare in tutto ciò un valore (o un merito, o una colpa) da parte dei DC sarebbe comunque un eccessivo sforzo di fantasia. È difficile fare un bilancio dell’attività dell’associazione, tra tutti quei CoderDojo e convegni. Si fa trasformazione digitale, localmente, a 200 persone alla volta, spesso, peraltro, quelle che si occupano già del tema?
Insomma, un po’ per colpa anche dello storytelling sulle magnifiche sorti della trasformazione digitale del paese si è vissuti per un anno al lordo, mentre al netto c’era pochissimo. E quanto vale quel lordo? Ecco, il lordo è anche nei dati di Asset Camera, una società delle Camere di Commercio che in queste ore stanno facendo molto discutere quanti osservano da vicino le esequie dell’associazione Digital Champions. Qui si entra in un ambito scivoloso, ma che non è certo possibile ignorare: gli open data servono a verificare e fare in modo che ognuno possa farsi una libera opinione.
Lavori perché Champion, o Champion perché lavori?
Può essere d’aiuto rielaborare aritmeticamente il file pubblicato sul sito relativo agli affidamenti 2015. I dati delle spese sostenute dalla camera di commercio raccontano un potenziale conflitto di interessi che si è rischiato tra la carica di Digital Champion, le attività giornalistiche della medesima persona e quelle di molti attori entusiasti dell’associazione in questo ultimo anno, incrociati negli eventi organizzati in questi ultimi 12 mesi ed ai quali hanno partecipato sempre in prima fila i Digital Champions stessi.
Asset Camera ha finanziato forniture, scambi merci, incarichi, servizi di assistenza, allestimenti, attività di promozione, uffici stampa, stipule assicurative. Gli eventi sono tutti quelli a cui Luna ha legato la sua attività: Venaria (40 mila euro), il MakerFaire di Roma (solo quest’ultimo finanziato con 181 mila euro) l’evento di StartupItalia, creatura di Luna. Lo stesso Digital Champion ha ottenuto un finanziamento per l’attività di promozione dell’evento alla Sapienza. Attenzione: c’è per caso qualcosa di sbagliato nel fatto che il Digital Champion sia anche una persona che lavora per vivere? Ovviamente no, sia chiaro. Inoltre, le date del rapporto tra Asset Camera e Riccardo Luna (risalenti in alcuni casi al 2011) mostrano come ha più senso affermare che Luna sia diventato Digital Champion grazie ai suoi lavori ed alle sue consulenze, non il contrario. Le argomentazioni degli acerrimi nemici in questo caso non centrano il bersaglio, pur esacerbate dalle cifre in ballo.
Vedere l’insieme di questi costi, senza un diaframma tra questi rapporti professionali e gli incarichi a studi di persone che sono anche influencer dell’ambiente giornalistico che poi dei campioni digitali facevano parte, invece non è un bello spettacolo. Si entra nell’inopportunità, che in questo paese fa più danni dell’illecito: almeno quest’ultimo deve guardarsi dalle leggi e da chi le deve far rispettare, mentre l’inopportunità è frutto di una deriva sottile ma devastante. C’è inoltre il dubbio relativo al tipo di affidamenti e ai costi/ricavi. Le aziende speciali delle Camere di Commercio in quanto organismi pubblici e quindi amministrazioni aggiudicatrici sono tenute, per le procedure di affidamento di lavori, servizi e forniture, ad applicare la normativa comunitaria e al rispetto dei procedimenti di evidenza pubblica. Invece estraendo i dati si scopre che le procedure aperte ammontano a 494.085 euro, quelle negoziate senza bando a 185.511, che le procedure senza previa indicazione di gara arrivano a 448.575 euro e gli affidamenti diretti pesano per più di due milioni di euro sui 3.195.000 totali.
In aggiunta, se si guarda l’ultimo bilancio, quello del 2014, di Asset Camera all’interno di quello generale della CCIAA di Roma, si legge che la Camera di Commercio copre la differenza tra costi di tutti questi progetti e ricavi per 1.269.024 euro. È irresistibile domandarsi: ne è valsa la pena? Questi eventi e successivamente l’anno dei Campioni digitali hanno fatto la differenza tanto da giustificare queste movimentazioni? Onestamente, non sappiamo rispondere.
Un modello culturale da cambiare
Insomma, tutta la vicenda dei Digital Champions – ed era fatta alla base da tante persone ben disposte e sincere – è una metafora delle costanti culturali di questo paese, tutt’altro che innovative. Un certo associazionismo spregiudicato, guidato da tanti piccoli scopi individuali a volte anche inconfessati a sé stessi, vissuti come risposta naturale alla intima certezza che anche tutti gli altri si comportano così; la tendenza ad affidarsi a leader carismatici e non a un lavoro più faticoso e concreto; la visibilità pubblica come rafforzamento dei rapporti amicali; il conformismo dettato dal timore di perdere chance professionali o dall’ambizione di acquisirne di nuove; infine la incredibile facilità con cui, una volta riusciti a entrare nel circolo delle competenze politicamente riconosciute, si ottengono finanziamenti per le proprie idee senza dover gareggiare, senza una reale contendibilità della posizione. Questo perché è stata conquistata, generalmente, nello stesso modo non contendibile, tramite amicizie, rapporti casuali, complicità umane vissute come energia da mettere nel sistema. Niente di male, anzi, finalmente qualcuno che ci mette la faccia. Peccato però che le cose negli altri paesi non funzionino in questo modo.
Eppure più si guarda nel pozzo meno si riconosce il volto di Riccardo Luna. Si vede quello del paese, quello che può dare. Cioè poco. Luna ha capacità affabulatorie eccezionali, scrive bene, lavora molto, racconta con entusiasmo le cose che vanno e se ci si prende la briga di leggere i suoi libri si trovano descritte chiaramente anche quelle che non vanno. È vero, è un esponente del tecnoentusiasmo, ma la descrizione che spesso ne fanno i suoi detrattori è un po’ stereotipata. Tanto che nei prossimi giorni pubblicherà una petizione sull’ecosistema startup che varrà la pena spiegare. Gli sono stati fatti notare fino allo sfinimento i tre problemi principali dell’idea dei Digital Champions – confusione del nome, titolarità della selezione, natura dell’associazione – e dopo aver eliminato la selezione, ha sciolto l’associazione mentre il movimento non avrà più lo stesso nome. Almeno in questo, le argomentazioni critiche sono state ascoltate.
Uscire dall’arena
Guardando a simpatizzanti e avversari ci si sente come Billy, il protagonista di Oltre il confine, romanzo meraviglioso di Cormac McCarthy che racconta la storia di un ragazzino che si pone l’obiettivo apparentemente insensato di riportare una lupa a casa sua. Quando viene catturata e portata in un tendone per farla combattere con dei cani, mentre centinaia di messicani urlanti scommettono quanti ne riuscirà ad uccidere prima di essere sopraffatta dalla stanchezza, Billy scende nell’arena, libera la lupa dalle catene e guardando negli occhi tutti quegli adulti incattiviti, scioccati dal gesto, dice solo due parole prima di andarsene: “è mia”.
Ci libereremo mai di questo andazzo? Smetteremo di assistere a questo circo di scommesse sull’agenda digitale dove la forza naturale del paese è incatenata dalle reciproche antipatie, invidie, avidità, piccolezze, interessi? Un’associazione in più o in meno non conta. Però si avverte molta stanchezza e la voglia di prendere questa cosa e dire “è mia”. Di riportarla a casa. Come si è visto, per sopravvivere il modello attuale tende a divorare sé stesso, a riprodursi in continue nuove versioni, muta per nascondersi e perpetrarsi. Mentre al 99% dell’opinione pubblica neppure importa. Non c’è nulla di più disperante per l’ecosistema innovativo italiano che costituirsi di indifferenza, conformismo, negazione e trasformismo. Non lamentiamoci poi dei dati annuali degli istituti indipendenti: sono l’unica cosa autentica che ci è rimasta.