A distanza di appena due mesi dall’ultima polemica, torna nuovamente a far
discutere il caso Google-Cina. È stata ancora una volta l’organizzazione
Reporters sans Frontières a sollevare la questione, segnalando il blocco
operato dalle autorità cinesi su tutti i siti internazionali di Google
News. A rimanere visibile agli utenti di quel paese resta ora la sola versione
locale del servizio, quella che al suo esordio aveva scatenato proteste a non
finire per via della presunta censura operata sulle notizie scomode e sgradite
al regime. Se in quel caso si parlò apertamente di complicità del
celebre motore di ricerca con le politiche repressive di Pechino, lo stesso non
può dirsi per quanto avvenuto negli ultimi giorni. Google sembra chiaramente
essere, ora, nel ruolo di vittima. Ma proprio per questo e a maggior ragione,
sono in molti a chiedere una presa di distanza, magari un disimpegno dagli investimenti
e dalle attività intraprese in Cina.
L’affare, insomma, rischia di diventare sempre più imbarazzante per
la società californiana, come se da chi ha fatto di ‘Don’t be evil’ il
suo motto distintivo non ci si aspettasse certi comportamenti. La realtà,
come è facile intuire, è ben diversa. Business is business,
per Google come per le migliaia di imprese di mezzo mondo che alla Cina guardano
come al più promettente dei mercati. Un dietrofront collettivo in nome
dei diritti umani sarebbe cosa splendida, ma è destinato a rimanere nel
novero delle utopie. Secondo diversi osservatori, tra l’altro, la ‘fuga’ dalla
Cina sarebbe solo un modo per accentuare la chiusura di quel paese, un fatto che
non produrrebbe certo progressi sulla via della libertà e della democrazia.
Il ragionamento potrebbe sembrare cinico, soprattutto quando si è consapevoli
delle continue violazioni dei diritti umani messe in atto dal regime comunista
di Pechino. Il capitolo
dedicato alla Cina nel rapporto Internet
under Surveillance 2004 pubblicato da Reporters sans Frontières è
una lettura molto istruttiva. Di quel paese si parla come della ‘più
grande prigione per cyber-dissidenti del mondo‘. Si spiega l’utilizzo di internet
come strumento di propaganda. Soprattutto, vengono messi in evidenza i sistemi
adoperati per mettere in atto una censura sistematica su quanto circola sul web
o nelle email. A partire dagli hub, cinque, attraverso cui passa il traffico da
e per il paese, una complessa infrastruttura realizzata con la stretta collaborazione
di Cisco, forse la prima azienda a finire nel mirino delle organizzazioni come
RSF. Rimanendo nell’ambito dei motori di ricerca, va ricordato che ben prima di
Google, era stata Yahoo! a subire precise accuse di cooperazione nella censura
di stato.
In quel rapporto, però, ci sono pure altri numeri, quelli che sintetizzano
i tassi di crescita annuale del settore, cifre impensabili, oggi, in questa parte
del mondo. Ecco, diciamo che le aziende guardano più a questi numeri che
al contesto. E, soprattutto, quando vanno in un paese estero devono adeguarsi
necessariamente alle leggi di quel paese, con tutti i compromessi che ciò
può comportare.
Google, ovviamente, non rinuncia a difendersi. Se da Google News China o tra
i risultati del motore di ricerca mancano certi siti è perché l’accesso
a questi ultimi sarebbe comunque impedito a chi si collega dalla Cina: che senso
ha metterli? Una spiegazione francamente debole e che tutto fa tranne che spazzare
via i sospetti di ‘collaborazione’ nell’opera di censura. Eppure una soluzione
onorevole ci sarebbe. È quella avanzata ieri in un post sul blog di Search
Engine Watch da Danny Sullivan. Google vuole continuare a non essere ‘evil’, vuole
continuare a guadagnarsi la fiducia dei suoi utenti? Non nasconda i titoli e i
risultati proibiti. Li lasci lì, scrivendoci sotto: "Non potete accedere
a questo sito perché il governo lo impedisce". E poi spieghi sempre
per quale motivo un certo risultato è stato omesso. Accadrà mai?
Consentitemi di dubitarne, fortemente.