Gli Stati Uniti vogliono tentare di reagire al difficile rapporto con il meteo cercando di razionalizzare la propria comprensione dello stesso: sarà la scienza, la statistica e l’apporto degli sviluppatori a spiegare come ogni singola realtà locale possa meglio interpretare i segnali che giungono da cielo, mari e nubi. Quel che l’amministrazione Obama vuol fare, insomma, è dare in pasto alle persone una valanga di numeri, dai quali ognuno potrà trarre le evidenze più importanti per prevedere e combattere le principali emergenze.
L’introduzione al progetto, denominato “Climate Data Initiative“, è del tutto esplicativa: la Casa Bianca non può che notare come i casi di condizioni climatiche estreme stiano aumentando progressivamente e, benché nessuna di essere possa essere ricollegata direttamente al global warming, l’aumento della loro frequenza statistica deve invece far pensare a un cambio generale delle condizioni entro cui tali fenomenologie hanno luogo.
L’idea per reagire affonda le radici nella politica di Open Data intrapresa ormai da anni da Barack Obama: aprire l’accesso ai dati significa non solo aumentare la trasparenza degli atti governativi, ma significa altresì tendere la mano all’intelligenza collettiva alla ricerca di nuove idee e per sprigionare nuove energie. I dati messi a disposizione saranno quelli relativi al monitoraggio metereologico effettuato da NOAA (National Oceanic and Atmosphere Administration), NASA, US Geological Survey, Dipartimento della Difesa e altre agenzie federali. La prima fase sarà dedicata al rischio inondazioni e i dati relativi sono già disponibili sul sito Data.gov.
L’obiettivo è anzitutto formativo: se dal basso si riesce a maturare una maggior consapevolezza sui rischi che si stanno correndo (e ciò lo si ottiene soltanto dando in pasto numeri sui quali le comunità locali possano sporcarsi le mani), con ogni probabilità si riuscirà anche a gestire il territorio in modo più intelligente. Ogni comunità locale è infatti un presidio che occupa un territorio e con quest’ultimo deve generare un rapporto di simbiosi quanto più efficiente possibile: se l’uomo aiuta il territorio, il territorio non avrà da ribellarsi all’uomo. Gli Open Data sono una nuova risorsa in tal senso, poiché consentono di conoscere meglio i fatti e di reagire quindi meglio alle situazioni di pericolo potenziale o reale.
Tra le iniziative che vanno in questa direzione v’è ad esempio l’impegno di NOAA e NASA, dalle quali giunge un contest che cerca modelli di simulazione da mettere a disposizione alle comunità che debbono affrontare il potenziale rischio di inondazioni. L’analisi delle piogge e dei livelli delle acque può sì essere effettuato a livello globale, ma microclima e singole specificità possono raccontare storie differenti in base alla molteplicità di parametri che ogni singola località contempla.
Al progetto partecipa anche Google: il gruppo ha messo a disposizione 1 Petabyte di cloud storage e 50 milioni di ore di high-performance computing tramite la piattaforma Google Earth Engine, suggerendo così la costruzione dei modelli simulativi direttamente sulle mappe del globo tracciate a Mountain View.
La novità è nell’approccio: la Casa Bianca non sta spargendo denaro alle comunità, ma offre invece loro nuovi strumenti con i quali difendersi da potenziali difficoltà. Così facendo si auspica un atteggiamento consapevole nei confronti del clima, maturando la consapevolezza per cui la normalità a cui si è abituati potrebbe non essere tale in futuro: piogge più violente del solito, incendi di difficile controllo, inondazioni o forti venti potrebbero essere sempre più frequenti e l’ammontare dei danni (tanto in termini monetari quanto in termini di vite umane) potrà essere ridotto solo se ognuno farà la propria parte.
Gli Open Data possono essere una ricchezza anche in tal senso: la trasparenza è soltanto uno dei benefici possibili, ma dietro all’aperta disponibilità dei dati, e alla democratica possibilità di accesso agli stessi, v’è anche molto di più.