L’avvento delle stampanti 3D rischia di creare non pochi problemi nel modo in cui la legge concepisce e regolamenta tanto il copyright, quanto altri aspetti più o meno importanti della giurisprudenza. Il copyright è stato il primo problema a porsi all’ordine del giorno: fino a che punto è possibile limitare o gestire lo scambio di modelli virtuali che consentano di riprodurre oggetti tramite stampanti 3D? Fino a che punto la produzione degli stessi può essere regolamentata ed assoggettata a precise prescrizioni? Ma un problema ulteriore sembra imporsi in queste ore: se il prodotto stampato è una pistola, fino a che punto è possibile limitarne la diffusione e la riproduzione ai fini della gestione della pubblica sicurezza?
Il punto interrogativo scende sulle stampanti 3D nel momento stesso in cui alcune circostanze vengono a concorrere in contemporaneità: da una parte le stampanti medesime iniziano ad avere sempre più eco; dall’altra la notizia della possibilità di stampare pistole (funzionanti) con stampanti 3D ha fatto molto parlare di sé; infine gli attuali problemi di pubblica sicurezza, che negli Stati Uniti sono stati messi in luce dai vari attacchi armati ripetutisi negli ultimi mesi, hanno fatto scoprire al paese un nervo scoperto sul quale anche gli ultimi fatti di Londra vanno a gravare. Barack Obama nelle ultime ore è stato chiaro: il terrorismo contro il quale l’America deve ora combattere non è più quello dei vari Saddam Hussein e Osama Bin Laden, ma è una minaccia interna più infida e nascosta. Se però qualunque cittadino ha la possibilità di stamparsi un’arma in casa, allora chi può ancora controllare il traffico delle armi in un paese ove già oggi il problema è avvertito come urgente?
Una opinione chiara giunge da un bollettino dell’intelligence del Department of Homeland Security: è praticamente impossibile fermare questo tipo di pratica. Impossibile, insomma, impedire che i modelli di armi 3D vengano divulgati online: le prime rimozioni hanno trovato risposta in ulteriori ripubblicazioni che rendevano vana la rincorsa al blocco. Impossibile, insomma, evitare che possano essere trovati, scaricati ed utilizzati dei file per produrre modelli funzionanti di arma da fuoco. Ma non solo: il fatto che una pistola 3D possa essere stampata in sola plastica rende l’arma stessa anche più complessa da individuare dai metal detector, il che va ad aggravare una situazione che già la legge non sa interpretare a dovere.
V’è il rischio concreto per cui il terrore della nuova generazione di armi fai-da-te possa infine diventare strumento anche per leggi più restrittive nei confronti del file sharing: se non si controlla il traffico dei bit, infatti, è impossibile controllare gli usi che si possono fare dei bit medesimi. Del resto la pubblica opinione è sempre più contraria alle armi, dunque non è da escludere che, sfruttando strumentalmente una situazione strategica positiva, ci siano lobby pronte a chiedere nuovi controlli e nuove restrizioni sulla libera circolazione delle informazioni in Rete. Qualsivoglia progetto in tal senso potrebbe quindi mettere in contrapposizione due problematiche di altissimo livello: la pubblica sicurezza da una parte e la possibilità di scambiare porzioni di file tramite infrastrutture aperte, decentralizzate e spesso anonime.
Dietro le armi stampate in 3D c’è insomma molto più di quanto gli oggetti ed i meccanismi di produzione in sé non raccontino singolarmente: c’è un dilemma importante che si pone al cospetto di norme pensate per un mondo nel quale la replicabilità di qualsivoglia oggetto con tanta semplicità non era contemplata.