Con un decreto pubblicato ieri in Gazzetta Ufficiale, il governo ha cambiato la norme sui controlli a distanza nel lavoro. C’è molta della tecnologia in uso oggi, a disposizione di quasi tutti, e le implicazioni a proposito della riservatezza raccontano dell’equilibrio che l’era dell’accesso tecnologico sta cambiando a velocità incredibile. Non si poteva pensare che uno Statuto vecchio di 45 anni potesse reggere, ma la domanda che è giusto porsi è se saremo tutti controllati mentre si lavora oppure no. Tuttavia, potrebbe anche essere la domanda sbagliata.
Lavoratori controllati, anzi, spiati per legge? Un concetto molto forte che già ai tempi della discussione col ministro Poletti era stato sparato sui giornali dai sindacati. Concetto però che non aiuta a comprendere davvero di cosa si tratta. Il decreto 151/2015 (pdf) all’articolo 23 cambia l’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori e aggiorna la disciplina che era invasa da problemi e sentenze degli ultimi anni tali per cui era diventato impossibile capire cosa deve fare un datore di lavoro quando installa vari sistemi come i badge elettronici, i lettori ottici, le applicazioni o i navigatori satellitari, tecnologie molto comuni che appartengono spesso agli stessi device casalinghi di chiunque.
Interpretando un orientamento giurisprudenziale più estensivo sul controllo della strumentazione messa a disposizione del lavoratore, subordinandola unicamente al rispetto delle garanzie previste nel codice privacy in termini di informativa e consenso, il nuovo testo in sostanza afferma che sono autorizzati questi strumenti – perché non si tratta della classica videosorveglianza in fabbrica – e per «tutti i fini connessi al rapporto di lavoro». Basta l’accordo con la rappresentanza sindacale interna e in altri casi conformemente alla Direzione territoriale del lavoro. Essendo citati tutti gli scopi, sono compresi anche quelli disciplinari. Basta che ci sia adeguata informazione al lavoratore, e comunque nel rispetto della legge sulla privacy.
Come cambia il controllo a distanza dei lavoratori? #statutodeilavoratori #dlgs151 #lavoratori #GazzettaUfficiale pic.twitter.com/Gi0CIn3pKL
— francesco p. micozzi (@fpmicozzi) September 23, 2015
Schiavi o solo aggiornamento?
C’è chi parla di nuovo schiavismo. Antonio Rossano e Alessandro Gilioli, entrambi sull‘Espresso, usano questi toni e non da oggi. Alcuni commentatori – ma spesso non sono giuslavoristi – temono vada a detrimento dei diritti dei lavoratori, per la combinazione con la legge sulla privacy che proprio a quell’articolo dello Statuto del 1970 si agganciava e che ora non c’è più. Sulla base della nuova norma si va ad estendere in modo positivo ciò che una sentenza della Cassazione (la 16622 del 2012) invece riduceva. Prevale in questo caso una specie di “presa d’atto” della valenza della tecnologia potenzialmente intrusiva che portiamo nelle nostre tasche, e ci si affida all’informazione verso l’utente, che in questo caso è anche dipendente.
Il Garante della privacy, Antonello Soro, ha limato questi pareri cercando una posizione più equilibrata (ancorché abbastanza perplessa). Nel documento “Facciamo chiarezza sui controlli a distanza nel jobs act” il garante spiega che era necessario adattare norme pensate per l’organizzazione fordista del lavoro alla realtà dell’Internet delle cose, della sorveglianza di massa, del corpo elettronico. Nel frattempo il governo ha varato il decreto lasciando inalterato il passaggio sui fini disciplinari che anche il Garante, sottolineando un «effetto naturale del contratto», reputava nient’affatto irrilevante.
Ciò che abbiamo sottolineato è che per delineare – come imposto dal criterio di delega – un equilibrio ragionevole tra ragioni datoriali e tutela del lavoratore, tra economia e diritti, si sarebbe dovuto riflettere non tanto sulla concertazione sindacale, quanto sull’effettiva estensione e pervasività di questi controlli. (…) Ovviamente, la necessaria conformità del trattamento dei dati dei lavoratori al Codice privacy consentirà l’applicazione di alcuni fondamentali principi (pertinenza, correttezza, non eccedenza del trattamento, divieto di profilazione), utili a impedire la sorveglianza massiva e totale del lavoratore.
Il telecontrollo in tasca
Senza finire nella retorica degli apocalittici, c’è da dire che l’Italia entra a piedi uniti in un terreno delicatissimo, in direzione opposta alla raccomandazione del Consiglio d’Europa che lo scorso aprile aveva auspicato che fra tutte le potenzialità del telecontrollo tecnologico – per intenderci quello che consente di sapere quando un lavoratore entra o esce da un magazzino, oppure quello che fa vedere sullo smartphone che tragitto sta percorrendo il pacco ordinato su un store online – il controllo disciplinare sull’attività e il comportamento dei lavoratori fosse residuale.
La tendenza, soprattutto in Europa, è vietare l’invasione nelle strumentazioni elettroniche anche quando fornite per lo scopo di lavoro. Anche perché spesso il confine è sottile, essendo a volte installate delle applicazioni sui dispositivi privati dei lavoratori che già permettono di rilevare presenza e posizione geografica. Una questione gigantesca che riguarda la raccolta dei dati, loro uso e conservazione, la comunicazione e la trasparenza di come sono usati, la gestione di questi quando si chiude un rapporto lavorativo, cosa fare in caso di azioni legali tra datore di lavoro e dipendente, nella cosiddetta “minimizzazione dell’impatto”.
È anche vero però che qui su Webnews si tradirebbe la fiducia nel feedback positivo delle tecnologie, nella somma zero tra l’uso e il venire usati da un device. In cui si è sempre creduto. Un datore può anche pensare di usare questi strumenti, ma nel momento in cui li si lascia in mano a qualcun altro, si può starne certi che ne verrà usato e che alla fine non ne ricaverà mai tutto quanto pensava di ricavarne, perché anche il lavoratore li sa usare. O dovrebbe saperlo fare.
Conoscenza contro manipolazione
Se si guarda bene al fondo delle cose, l’arretramento potenziale della privacy è dovuto più alle tecnologie stesse quando non si conoscono, compensato da tanti altri benefici e vantaggi. I nostri attuali “datori” di cui forse ci si dovrebbe preoccupare sono le multinazionali che producono questa tecnologia e usano dati che volontariamente concediamo in misura enorme rispetto ad ogni altra concessione, soprattutto con garanzie quasi inesistenti rispetto a quelle dell’ambiente di lavoro.
C’è anche un ulteriore problema: la manipolazione. Queste tecnologie sono aperte, anche quando sembrano chiuse, non c’è nessuna possibilità che un datore di lavoro malintenzionato possa davvero dimostrare alcunché con i dati di un device. La prima cosa che farebbe l’avvocato di un dipendente licenziato per una condotta negativa scovata da un dispositivo elettronico sarebbe una CTU (consulenza tecnica d’ufficio) con allegato ricorso a un’analisi che dimostri come quel dato possa essere falsificato facilmente. Chiunque può manipolare in pochi minuti un navigatore o un’applicazione: arduo farne il presupposto per una sanzione disciplinare. Tra l’altro, è assai più probabile che si inauguri una stagione di battaglie nei tribunali sul modo in cui sono redatte le informative privacy. Cioè, superlavoro anche per il Garante.
Insomma, si apre un periodo di grande dibattito su come le tecnologie impatteranno nel lavoro ora che sono state sdoganate. Non a caso la prima puntata della trasmissione “Presi per il web” di Radio Radicale sarà proprio a commento di questo decreto. Ospiti domenica alle 19.30 saranno Davide Tripiedi (Deputato M5S e membro della Commissione Lavoro), Chiara Gribaudo (Vice presidente del gruppo Pd alla Camera dei deputati), il Prof. Felice Testa (Docente di Diritto del Lavoro presso l’Università Europea di Roma) e la Prof.ssa Elena Bassoli, docente di Diritto dell’Informatica presso l’Università di Genova.
Padroni spioni? Podcast su #JobsAct con @felicetestatw @elbax @chiaragribaudo D.Tripiedi http://t.co/l5OAqObzLM #SenzaFiltri @RadioRadicale
— PresiperilWeb (@PresiperilWeb) September 28, 2015