Un picco di calore come quello che si sta verificando quest’anno può costare molto al paese in termini di consumi energetici: l’insopportabile temperatura avvertita consiglia infatti l’accensione dei condizionatori, cercando refrigerio per ripristinare normali condizioni di sonno o di lavoro. Soprattutto in quest’ultimo ambito, ove si passa la maggior parte del tempo durante la giornata, è possibile però agire anche in altri modi, limitando i costi (non soltanto in termini economici) dell’uso continuo e irrazionale del condizionatore durante le ore di lavoro. Come? Potrebbe bastare un accorgimento semplice quale il togliere la cravatta.
La cravatta è molto più di un nodo
Può sembrare paradossale ma, anche durante i picchi di calore estivi, la formalità dei luoghi di lavoro non viene meno in virtù di regole condivise che in troppi rinunciano a mettere in discussione. La logica vorrebbe che, a fronte di temperature fuori dalla norma, un manager oculato istruisca l’ambiente di lavoro affinché le questioni di forma possano essere ammorbidite a vantaggio di molti vantaggi sostanziali. Così non è, però, e in troppi uffici la cravatta rimane un dogma da non mettere in discussione, un segno distintivo troppo importante per poterne fare a meno.
Secondo Oscar Wilde «un bel nodo di cravatta è il primo passo serio nella vita»: era il 1800 e la cravatta aveva già incarnato un significato fortissimo, alveo di compostezza, rigore, serietà e affidabilità. Il modo di vestire, così come lo sguardo, la prossemica e molti altri codici comunicativi, raccontano della persona molto più di quanto le parole stesse non trasmettano. La cravatta, in ambienti di stretta codifica quali quelli professionali, rappresenta pertanto un tassello irrinunciabile che funge da biglietto da visita più del biglietto da visita stesso: ne è l’anticamera, il requisito essenziale.
La cravatta era e rimane un segno di rispetto, decoro ed eleganza. E la sua funzione era e rimane quindi irrinunciabile, poiché parte del codice condiviso degli ambienti professionali, ove portare la cravatta incornicia il proprio modo di porsi rispetto ai colleghi, i partner o i clienti. In certi ambienti togliere la cravatta è come uscire dal personaggio per rientrare in se stessi, come bollare l’uscita dall’ufficio per dare inizio al tempo libero.
Tuttavia un approccio intelligente suggerire di pesare i codici comunicativi in base al contesto ed allo scenario in cui vanno a configurarsi, poiché l’elemento umano deve venire sempre e comunque prima di tutto il resto: portare la cravatta durante i picchi di calore non solo è un modo scomposto di inseguire l’eleganza, ma va anche a danno del rispetto della persona. Un simbolo che vuol comunicare compostezza diventa segno arcaico di formalità standardizzata; un simbolo che vorrebbe essere questione di rispetto, diventa costrizione personale. La cravatta, quando indossata in contesti di calore anomalo, mette a disagio tanto chi la porta quanto chi osserva.
Ecco dove l’eccezione può confermare la regola, quindi: laddove il contesto muta le condizioni di base, scardina la scenografia tradizionale e cambia il punto di osservazione. Dunque perché non togliere la cravatta? Perché non “trasgredire”, pur se in termini codificati e significativi? C’è chi ci ha provato, ottenendone risultati estremamente significativi.
Lo dice il Ministero della Salute
Il consiglio affonda le radici al 2007, quando il Ministero della Salute ha rotto gli indugi con un comunicato di metà luglio nel quale ci si portava avanti nei lavori rispetto ai picchi di calore in arrivo. Il Ministro della Salute dei tempi era Livia Turco e fu sua la proposta di eliminare la cravatta dagli uffici non solo per aumentare il benessere (libertà personale a cui troppi professionisti avrebbero rinunciato per non intaccare il proprio profilo nel contesto aziendale), ma per far sì che se ne potesse ottenere un beneficio generico in termini di sostenibilità.
Questo l’invito del ministro:
Il Ministro della Salute Livia Turco, nell’ambito degli interventi già in atto per fronteggiare i rischi per la salute delle ondate di calore, invita inoltre tutti gli uffici pubblici e privati italiani a proporre ai propri dipendenti di non usare la cravatta durante le ondate di calore come quella che sta attraversando parte della penisola in questi giorni.
Il tutto spiegato in termini precisi che contestualizzano l’azione proiettandone i riscontri in ambito sociale (vera chiave di volta dell’iniziativa):
Togliere la cravatta produce infatti un immediato abbassamento della temperatura corporea valutabile tra i 2 e i 3 gradi centigradi, con beneficio dell’organismo e con conseguente minore necessità di refrigerio permettendo un più oculato uso del condizionamento artificiale dell’aria a tutto vantaggio del risparmio energetico e della tutela dell’ambiente.
Prima la sostenibilità
«Un piccolo gesto che non costa nulla ma che può aiutare a sopportare meglio il caldo eccezionale di questo periodo»: l’importanza dell’intervento ministeriale sta nell’aver svincolato gli uffici da una decisione difficile da assumere in termini isolati: trasgredire ad una norma comportamentale condivisa significa fuoriuscire dai canoni condivisi, posizionandosi come entità alternative, di rottura, di protesta per molti versi. Togliere la cravatta in certi contesti può avere significati profondi che vanno ben oltre il nudo gesto del nodo sciolto.
Ma se il primo a togliere la cravatta è il ministero, e se il tutto diventa un consiglio di natura sociale, il tavolo è ribaltato: togliere la cravatta non è più azione “ribelle”, ma è anzi modo per conformarsi ad un atteggiamento socialmente responsabile, con il quale un bene collettivo parificabile a quello del rispetto e dell’eleganza: la sostenibilità.
La priorità non è più il rapporto persona-persona, ma il rapporto persona-collettività: portare la cravatta durante i picchi di calore non è eleganza né rispetto, ma semplicemente disattenzione rispetto ad una norma sociale mutata. Lo ha detto il ministero, del resto. Abbassare la temperatura corporea di 2-3 gradi con un semplice gesto non è trasgressione, ma intelligenza. E grazie a questa semplice evoluzione del codice condiviso di eleganza è possibile ottenere risultati clamorosi.
Eni toglie la cravatta
Eni non solo ha seguito i consigli del ministero, ma li ha anche anticipati in senso pionieristico: l’esperimento è iniziato nel 2007, poco prima della comunicazione ministeriale, proseguendo negli anni successivi con sempre maggior incisività. La scelta è stata quella di consigliare ai propri dipendenti la rimozione della cravatta, così che l’intero gruppo potesse cambiare la policy di gestione della temperatura negli uffici. Se la rimozione della cravatta consente di abbassare la temperatura corporea di 2-3 gradi, è infatti quanto basta per fare alzare la temperatura negli uffici di 1 grado senza comportare disagi ai lavoratori.
1 grado rappresenta nell’immaginario collettivo poco più di 1 click sul telecomando del condizionatore, in quanto entità addirittura difficile da percepire sulla pelle: il differenziale di 1 grado è qualcosa che la persona tendenzialmente ignora, lasciando che il corpo agisca (attraverso il sudore) con un continuo lavoro di riequilibrio della temperatura interna. Anche un solo grado in più, invece, rappresenta per una grande azienda qualcosa di fondamentale in termini di spesa, di consumi e di impatto ambientale.
Al termine del primo anno di sperimentazione, Eni aveva già risparmiato 243 mila kWh, il che si tramuta tanto in risparmio economico (che l’azienda ha reinvestito di proposito in azioni per il miglioramento della sostenibilità del gruppo), quanto in minori emissioni di CO2 nell’ambiente. Tradotto in altri termini, le 112 tonnellate di anidride carbonica risparmiate all’ambiente sono equivalenti «alle emissioni che si sarebbero evitate se, nello stesso periodo, 650 dipendenti si fossero recati in ufficio utilizzando i mezzi pubblici anziché l’automobile». E tutto ciò per un solo grado in più negli uffici e una cravatta in meno al collo.
Nel 2014 sono stati 361 mila i kWh risparmiati, pari a 147 tonnellate di emissioni. Togliere la cravatta durante i mesi estivi dal 2007 al 2014 ha già portato a quasi 3 milioni di kWh risparmiati ed oltre 1200 tonnellate di anidride carbonica in meno nell’ambiente. Se il tutto lo si moltiplica per quanto ottenuto da altri gruppi che hanno seguito medesima iniziativa quali Geox o Benetton, il quadro risulta estremamente chiaro.
Spiega il gruppo del cane a sei zampe: «La tutela dell’ambiente e l’uso attento delle risorse naturali assumono particolare importanza in un’azienda come eni che ritiene un requisito imprescindibile, operando in contesti anche molto vulnerabili, evitare o limitare il più possibile gli impatti delle proprie attività». Ma è del tutto evidente come togliere la cravatta sia un semplice incipit ad una filosofia più ampia, quasi un rito iniziatico nella direzione di un nuovo modo di intendere il rapporto con l’ambiente. Ed in tal senso, ancora una volta, togliersi la cravatta ha una sua simbologia “ribelle”, o almeno di atteggiamento sfrontato, da parte di chi abbatte le regole della formalità in virtù di un bene collettivo che si considera più importante e prezioso.
È importante quindi continuare questo percorso favorendo il diffondersi di un atteggiamento culturale consapevole che vivere e “lavorare” nel rispetto dell’ambiente sia un elemento scontato, imprescindibile, anche a partire da semplici gesti quotidiani. Proprio per diffondere e stimolare a tutti i livelli questa consapevolezza l’azienda promuove una campagna di comunicazione interna che intende sensibilizzare le persone di eni sull’importanza di evitare sprechi di acqua e di energia, di limitare la produzione dei rifiuti e di migliorarne la possibilità di riciclo e sull’impatto che hanno i trasporti sull’ambiente.
Reinterpretare contesto e consuetudini
Nel momento in cui la sostenibilità è diventata nuovo paradigma di mercato, imponendosi come nuovo mantra in virtù dei segni tangibili lasciati dall’uomo sull’ambiente, molte delle consuetudini dei decenni passati hanno perso la loro logica. La mobilità sostenibile, i consumi sostenibili, la produzione sostenibile, i mercati sostenibili: ogni entità matura una propria dimensione parallela nella quale il compromesso si fa strada in protocolli, azioni, ricerca, sviluppo e responsabilità sociale.
Togliere la cravatta è un gesto che va a reinterpretare un codice condiviso: ha una valenza sociale forte, ma è al tempo stesso un passaggio doveroso. La storia ne è disseminata: l’abbigliamento ha seguito (spesso anticipato) i cambiamenti sociali così come la musica, la poesia ed ogni altra forma d’arte o di espressione. La sostenibilità non è una moda passeggera né un semplice vezzo: è una necessità che le avanguardie su ogni fronte stanno ormai incarnando per proiettarsi al futuro. Non c’è futuro senza sostenibilità, del resto, e per questo motivo occorre inseguirne l’incedere a partire dai piccoli gesti. C’è una nuova forma mentis da metabolizzare nella cultura condivisa e togliere la cravatta durante i giorni di calore eccezionale altro non è se non mera intelligenza prospettica. Ribellione e integrazione sono, pur se agli antipodi, questioni formali: la riduzione dell’impatto ambientale è qualcosa di differente, è un sillogismo che lavora su un altro piano prospettico e che pone realmente le basi ad un cambiamento radicale. È questione sostanziale, della quale l’abito e il monaco non hanno nulla a che fare.