Una follia, un autogol, le multinazionali scapperanno, anzi resteranno e moriranno le piccole startup. Sulla webtax si è letto di tutto e forse il primo obiettivo dei suoi ideatori è raggiunto: smuovere le acque e parlare del problema enorme del profit shifting, la capacità delle web company di pagare poche tasse rispetto a fatturato e guadagni grazie ad escamotage che sfruttano vuoti legislativi continentali. Molte critiche che scoppiano sul web sono veritiere, altre meno.
Alla notizia che la webtax è stata approvata in Commissione Bilancio venerdì scorso è seguito un dibattito online sui social che ha prodotto una quantità colossale di critiche. Molti esponenti, anche noti, della Rete – spesso protagonisti di battaglie importanti, come quella sull’Agcom – hanno preso di mira le proposte di Francesco Boccia, Ernesto Carbone e tutti gli esponenti del PD che in questi mesi hanno portato avanti l’idea contenuta negli emendamenti che potrebbero arrivare al voto di fiducia alla legge di stabilità.
Le voci critiche
Tra le voci critiche si annoverano gli interventi complessivi di due profili assolutamente al di sopra di ogni sospetto, come Luca De Biase e Guido Scorza, che all’indomani del voto hanno dato un giudizio negativo non soltanto alla webtax in sé, ma all’azione di governo sui temi della Rete. Il primo, con un post sul suo blog, ha sottolineato la mancanza di una visione dall’alto, di una «valutazione di impatto digitale»:
Gli obiettivi di quelle norme possono essere giusti: salvaguardare il copyright, impedire l’elusione fiscale, aumentare la lettura di libri e così via. Il problema è che mentre tentano di raggiungere quegli obiettivi, quelle norme sembrano rendere più difficile puntare ad altre importanti finalità: alimentare la crescita, aumentare l’occupazione, facilitare l’innovazione.
Il giurista Scorza è stato più sferzante, nel suo articolo sul FattoQuotidiano, dove parla di «settimana nera di Internet»:
(L’Italia) è Paese di analfabeti digitali e che sconta un gap senza eguali in Europa in termini di uso delle nuove tecnologie. Tutto considerato, pare proprio che la novella Arca di Noè che traghetterà il mondo verso il futuro e lontano da un sistema economico e politico prossimo alla fine, salperà senza il nostro Paese a bordo. Altro che “Yes we can”, in Italia stiamo dicendo, a voce alta, “Bye, Bye Internet!”
La cornice europea
È parere di molti che questa incredibile sequela di norme, sull’enforcement del copyright, sull’aumento della tassa sulla memoria elettronica, sulla tassa per proteggere i venditori italiani di pubblicità, su presunte difese dei contenuti giornalistici aggregati nei motori di ricerca, saranno cancellate da Bruxelles. È una probabilità molto alta, ma vale anche per la webtax? La verità è che la Commissione Europea è impegnata da 18 mesi sul tema del fallimento della competizione interna tra fiscalità e sta lavorando all’armonizzazione del fisco guardando anche alle tech company straniere. Dunque, l’argomento secondo il quale manca una cornice europea alla webtax è vera soltanto oggi, ma potrebbe non esserlo in futuro. Il Parlamento sta rischiando inutilmente oppure sta stimolando gli altri?
Il rischio per le startup
Fra tutte le possibili vittime della webtax, quella che sarebbe inaccettabile è l’ecosistema italiano delle startup. Per questa ragione vanno ascoltate con attenzione le parole del presidente di Italia Startup, Riccardo Donadon, che oggi ha diffuso una dichiarazione per la stampa nella quale parte proprio dalla cornice europea:
La cosiddetta “web-tax” rischia di essere un clamoroso autogol per il nostro Paese. Non possiamo che osteggiare una manovra che di fatto rischia di tagliare fuori l’Italia dal resto del mondo digitale. Sul delicato tema della tassazione relativa ai soggetti che operano su Internet è infatti attivo da tempo un tavolo europeo chiamato a esprimere un provvedimento armonico e valido per tutti i paesi membri. Muoversi come singolo stato membro in modo anticipato e distonico rispetto alle future decisioni europee, ci può penalizzare molto. Rischiando di allontanare dal nostro Paese molte aziende che forniscono agli startupper, e più genericamente a tutte le aziende che hanno capito quanto importante sia innovare, strumenti e metodi per implementare le loro idee. E quindi di distogliere investimenti internazionali importanti, proprio ora che il Governo ha appena promosso il programma Destinazione Italia, mirato ad attrarre sia risorse umane che risorse economiche dall’estero.
I difetti della webtax
La webtax è un testo, anzi una serie di testi, per la precisione, e ancora in fase di approvazione, non privo di difetti. Quelli più evidenti sono:
- Contrasto col diritto comunitario. Prevedendo l’obbligo di possedere una partita IVA italiana per tutte le società che vendono pubblicità e servizi, di advertising e commercio elettronico, il testo obbliga anche chi compra a farlo solo da aziende con questa caratteristica. Ma questo cozza contro libertà di stabilimento e libertà di circolazione di beni e servizi stabiliti nei trattati Europei, a partire da quello del 1957. Questo è in assoluto l’argomento più utilizzato dai critici, anche esteri: basta leggersi il furibondo articolo di Forbes, che pronostica una procedura di infrazione se il governo insisterà su questa strada.
- Difficoltà a imbrigliare la Rete. Un altro elemento di criticità è contemperare la partita IVA italiana con lo scambio servizio-denaro operato quotidianamente in Rete. In altri termini: se un’azienda con sede e server all’estero vende un proprio servizio a un’azienda italiana (compra pubblicità) risulta complicato immaginare che per ogni nazione si debba aprire una partita iva. Chi ad esempio fa marketing territoriale – basti pensare ad Eataly – e acquista banner su siti esteri, potrà continuare a farlo?
- Cifre non calcolabili. Un altro tema pressoché infinito è il calcolo degli eventuali introiti. Secondo gli autori della webtax la combinazione di partita iva con nuovi meccanismi di valutazione del reddito (la riforma del TUIR), porterebbe un flusso importante di denaro. Eppure, i ricavi complessivi della pubblicità digitale in Italia non superano gli 800 milioni di euro, dei quali il 40% in capo a Google: passando per la tassazione italiana anche considerando la webtax è presumibile che il gettito fiscale aggiuntivo sarebbe dell’ordine di 20 milioni di euro, e se considerate anche le altre tecniche di valutazione comunque non superiore a 100-150 milioni. Una cifra modesta, che non può seriamente alleggerire il cuneo fiscale, scopo della proposta.
Gli americani
Se c’è qualcuno che ha da subito attaccato la webtax è l’American Chamber of Commerce in Italy. Dopo diverse prese di posizioni – e anche attività di lobby presso il ministero che pareva avesse scongiurato l’approvazione in commissione – oggi arriva un commento a freddo, ma comunque determinato nei toni, del consigliere delegato Simone Crolla:
Gli ispiratori della Web Tax dovrebbero riflettere sul danno d’immagine per l’Italia provocato da questo provvedimento agli occhi della comunità internazionale. Gli emendamenti alla Legge di Stabilità 1.1702 e 1.1643, già approvati dalla Commissione Bilancio della Camera, rappresentano l’ennesima dimostrazione di autoreferenzialità ed arroccamento del ceto politico italiano, che non consente l’apertura di un serio ed approfondito dialogo su questa materia, delicata e strategica per il futuro. Non solo quelle americane, ma tutte le aziende straniere del settore digitale non sono evasori, bensì investitori che rispettano le normative fiscali europee, giuste o sbagliate che siano. Invito a considerare, inoltre, l’enorme impatto che la loro presenza ha nello sviluppo dell’ecosistema digitale italiano, promuovendo la cosiddetta “app economy”. La Web Tax, che impone l’apertura di una partita IVA italiana e ridefinisce il concetto di stabile organizzazione, è il tentativo di assoggettare le aziende digitali estere alle normative fiscali italiane, provocando un danno sia ai produttori che ai consumatori.
Il concetto
Eppure si sta parlando di un concetto giusto: l’economia si sta spostando, dunque deve spostarsi anche il fisco. Che senso ha continuare a tassare cittadini e imprese al 60%, quando permetti ad aziende che operano in settori futuribili, gli unici a crescere, di pagare tasse quasi nulle rispetto ai guadagni? L’economia dell’immateriale ha imparato ad essere immateriale, invisibile – per sua stessa natura – agli occhi dei vecchi Stati Nazione, con le loro burocrazie, ma questo è politicamente insostenibile. Come lo stesso Boccia ha ribadito in una intervista oggi:
Stiamo assistendo alla più grande emorragia finanziaria della storia del capitalismo. (…) La Web tax non tasserebbe gli utenti, ma le multinazionali del web. Le aziende italiane non sarebbero toccate, le tasse le pagano già. E in più ci consentirebbe di tracciare i flussi finanziari verso l’estero. Il senso della legge è cambiare la strategia della tassazione. Spostarla dal luogo in cui si produce al luogo in cui si consuma. Se ne parla da qualche anno e per questo i giganti dell’economia Usa sono preoccupati. Nei grandi dibattiti si dicono sempre pronti a sottostare alle leggi dei paesi ospitanti. Però, se si prova a cambiare quelle leggi, si lamentano.