Da quando la realtà online ha iniziato ad imporsi nella quotidianità, uno dei temi che si sono imposti con maggior urgenza nel dibattere generale è stato quello sulla privacy. Cosa è, innanzitutto. E dove siano i suoi limiti. Come difenderla, infine. Perchè la privacy è stata considerata innanzitutto come un bene personale, un qualcosa di cui poter disporre e qualcosa che si ha diritto di difendere.
La rete, infatti, ha alcune caratteristiche peculiari. Innanzitutto ha memoria. Ciò che arriva in rete non scompare e spesso se si tenta di forzarne l’oblìo si finisce con il rinforzare il passaparola. Ciò che arriva in rete, dunque, non ne esce più e l’unica speranza che si può nutrire è il silenzio e la perdita di rilevanza a beneficio di altri argomenti: per scomparire dalle segnalazioni, per scomparire dai forum, per scomparire dai motori di ricerca. La rete, inoltre, mette tutto a disposizione di tutti, con una immediatezza di ricerca che rende le informazioni immediatamente reperibili a mano a mano che la digitalizzazione le porta sulla piazza del web.
La piazza, sì, perchè di piazza si tratta. Il chiacchiericcio non è mai veramente privato, le informazioni non passano mai da bocca a orecchio in una catena infinita ma lineare. Sulla rete l’informazione è sempre uno-molti e dopo questa prima fase è immediatamente in un molti-a-molti irrefrenabile. Per cui sul web non c’è pettegolezzo che regga, tutto è per tutti. La privacy in questo contesto può solo agire preventivamente bloccando le entrate e filtrando ciò che non si vuole far passare.
Spesso la rete è salita agli onori delle cronache per casi eccezionali di privacy violata: immagini scandalose, notizie che non dovevano essere diffuse, dati sfuggiti al controllo. Al crescere dei problemi è cresciuta la preoccupazione degli organi di controllo, ed al crescere della tensione si è fatto sempre più urgente il monito a fare attenzione alché i propri dati non vengano deliberatamente portati in rete senza le necessarie precauzioni.
Eppure per millenni questa esigenza era limitata ad una porta e ad un vetro: se le notizie non fuoriuscivano da quel limite, erano salve. L’integrità delle mura casalinghe erano quanto bastava e la segretezza era totale perchè difendere quel che succedeva all’interno significava difendere l’integrità di se stessi. Ora, l’era in cui ognuno mette in piazza se stesso perchè è solo esponendosi che si può vendere il proprio valore, le difese devono essere tanto superiori quanto superiore sono le minacce intrinseche alla forza dello strumento. Eppure non sempre la privacy è facilmente identificabile. Questa settimana due esempi hanno messo a dura prova i crismi soliti del dibattito, portando in piazza due casi eccezionali, assieme: Steve Jobs e Randy Pausch, due lati della stessa medaglia.
Steve Jobs l’ha voluta difendere la propria privacy. Ha ritenuto importante combattere la propria battaglia senza coinvolgere tutto quello che negli anni ha eretto attorno a sé. Non è questa cosa giudicabile, ci son battaglie che ognuno deve combattere come meglio crede. Eppure la sua privacy è stata messa in discussione perchè supera il diritto altrui di sapere. Quello che per Jobs è un problema di salute, per altri è un oneroso impegno finanziario e conoscere i dettagli della sua infiammazione significa salvaguardare il proprio capitale da eventuali ripercussioni improvvise. La situazione s’è fatta presto antipatica: la salute di uno contro l’interesse finanziario di tanti; l’uno a difendere la propria vita privata, gli altri a tentare di violarla pur di cogliere qualche indizio.
Ed in questa tensione fatta di botta e risposta per nulla gradevoli, piomba sul dibattito ciò che scardina tutto ponendo innanzi agli occhi l’esempio opposto. L’ultima lezione di Randy Pausch ha toccato la sensibilità di tutti. Le sue parole, le immagini (nel filmato successivo dal minuto 9 in poi), la morte, la sua eredità intellettuale. Pausch ha combattutto la morte sfidando la vita, mostrandone a tutti la dirompente energia, tirando fuori entusiasmo e gioia da situazioni normalmente esclusivamente dipinte con le tinte truci del dramma. Quella che per Jobs è stata una sfida vinta nel 2004 (oggi le ultime notizie sono di una disfunzione diversa e meno grave), per Pausch è una sfida che non si può neppure impugnare: la sentenza è scritta, ma rimane del tempo per razionalizzare.
Pausch non solo ha fatto qualcosa per se stesso, ma l’ha fatto per tutti coloro i quali hanno seguito il suo intervento: ha messo in piazza le sue sofferenze, i suoi timori e la sua voglia di vivere tenendo una lezione che è insegnamento puro, al netto di ogni fronzolo. Pausch, forse perchè non aveva più obiettivi preminenti da raggiungere, è salito sul palco ed ha spiegato quel che è successo alla luce di quel che sarà, aprendo completamente la propria vita e regalandola alla memoria altrui. E la platea non ha certo avuto gioco facile a cogliere lo spirito delle sue frasi, ridendo spiazzata di fronte alle battute del professore. Il valore del suo intervento ha trovato immediata rilevanza, milioni di persone ne hanno voluto assaporare lo spirito. E la morte, in settimana, ha solo sublimato le lodi raccolte in questi mesi mettendo il punto finale all’ultimo capitolo.
Steve Jobs e Randy Pausch, due lati della stessa medaglia. L’uno che si chiude e deve difendere il proprio diritto a combattere; l’altro che non ha più nulla da combattere, ma che sfida la sentenza a testa alta offrendo in questo modo a tutti un valore inestimabile. Due esempi in pochi giorni a mischiare le carte ed a spingere molto più in profondità il concetto diffuso di privacy. Perchè la privacy è sì un valore, ma ciò non significa che lo si deve nascondere. È un valore che è importante investire. È un valore che è importante gestire. È un valore dato da una possibilità: mettere se stessi in piazza o meno. La rete ha solo reso ancor più evidente tutto ciò, forzando le volontà indiscutibili di Jobs ed offrendo una platea planetaria al messaggio di Pausch.