Un incontro tra grandi editori, un momento di riflessione, ma soprattutto un momento per fare fronte comune contro quello che è ritenuto a vario titolo il nemico numero uno: Google. Le parole delle firme principali dell’editoria italiana odierna sono riassunte nell’intervento di Carlo De Benedetti (Gruppo L’Espresso), pubblicate integralmente su La Repubblica, poiché rappresentano il cuore della polemica: De Benedetti, la firma principale dell’editoria italiana, che punta il dito senza mezzi termini e ribadisce come l’editoria non possa salvarsi se le istituzioni non pretenderanno regole differenti per il mercato.
Il digitale ci ha dolorosamente insegnato che non solo i mezzi di produzione e di distribuzione sono radicalmente differenti, ma che il nostro stesso mercato non è più definito come lo è stato per un paio di secoli. E se i mercati sono differenti, differenti devono essere le nostre idee di concorrenza e di concorrenti: le testate giornalistiche – tradizionalmente definite – non sono più i nostri concorrenti esclusivi e questo dovrebbe farci riflettere su differenti possibilità di cooperazione per cercare di ri-creare lo slancio e la scala necessari all’editoria giornalistica.
«Io ho paura di Google»
L’analisi è lucida e condivisibile, poiché descrive retrospettivamente quanto accaduto in questi anni: la pubblicità e il contenuto si sono staccati nel momento in cui un nuovo layer si è messo tra supporto e lettore: nel momento in cui un motore di ricerca ha conquistato la fiducia degli utenti, infatti, l’editore ha perso gran parte del proprio potere e la pubblicità si è poco alla volta spostata altrove. L’emorragia che ne è scaturita è stata mortale: l’editoria soffre oggi di gravi difficoltà e, mentre necessita di rivedere al proprio interno meccanismi, dinamiche ed equilibri, chiede anche che dall’esterno giunga un aiuto determinante senza il quale non sembra poterci essere luce in fondo al tunnel.
I Google, gli Apple, gli Amazon e i Facebook di questo mondo amano definire se stessi come imprese di “tecnologia”. Sarebbe a dire che i campioni più innovativi e dotati di risorse dell’era digitale descrivono la propria attività usando concetti degli anni che furono. Essi sanno assai bene, naturalmente, che il mondo è cambiato, ma il vecchio concetto “contenuti-vs-tecnologia” si adatta bene all’idea di un settore parallelo dei “contenuti” che deve affidarsi alla “tecnologia” per i servizi senza i quali quei contenuti non possono essere creati e/o acceduti. È una visione della realtà tanto falsa quanto sembra ragionevole. Non fosse altro che per una cosa: la pubblicità.
Più confusa e meno efficace è invece la disamina successiva, l’arringa che l’accusa tenta di scagliare contro il colosso onnivoro e ingombrante. «Io ho paura di Google», spiega De Benedetti, «prima di tutto perché il monopolio privato dell’accesso digitale alla conoscenza è uno strumento di omologazione senza precedenti. E anche perché da anni leggiamo che gli operatori digitali globali immagazzinano dati personali raccolti fuori da qualsiasi controllo […]». Omologazione e privacy, insomma: due argomenti forti e validi, ma due argomenti non propriamente legati alla pubblicità usati come rafforzativo del teorema sugli equilibri di mercato.
Fermare Google: appello all’UE
Tuttavia il punto centrale torna nella parte finale del discorso, quando si propone una soluzione possibile:
Per quanto riguarda Google, la soluzione di gran lunga migliore ai problemi concorrenziali che abbiamo di fronte sarebbe di sottomettere i servizi di ricerca specialistica di Google alle norme che l’algoritmo della ricerca generale applica a tutti gli altri. Ciò potrebbe essere raggiunto sia con una separazione delle proprietà (un’antica e ben nota misura anti-trust) o con una separazione funzionale della attività di General Search da quelle dei Servizi e Ricerca specializzati, a prescindere da fatto che tali servizi e attività siano attualmente monetizzati direttamente. Questa separazione funzionale potrebbe essere raggiunta proibendo l’uso dei dati raccolti tramite un servizio a beneficio di un altro servizio della società.
Separazioni funzionali all’interno di una società che invece ha saputo vincere la sfida contro l’UE (almeno per ora) arrivando all’integrazione piena dei dati personali raccolti da più servizi del gruppo: la ricetta proposta da De Benedetti appare debole, ma soprattutto tardiva: se si doveva supportare l’UE in una scelta tanto forte, occorreva un endorsement specifico antecedente di almeno uno o due anni. Prima di oggi invece la sfida tra editori e Google è stato vissuto soprattutto sul lato tecnico, cercando improbabili esclusioni da Google News o puntando su una sorta di equo compenso collettivo da redistribuire tra gli aventi diritto.
De Benedetti suggerisce alla Commissione Europea azioni di forza, ma al tempo stesso tenta di salvare la situazione anche proponendo il giusto atteggiamento al mercato di cui fa parte il Gruppo L’Espresso: cooperare, oltre che competere, consentirebbe di far fronte comune e di evitare una impossibile parcellizzazione del mercato. Di fronte al colosso, insomma, si può resistere soltanto combattendo in gruppo. Secondo De Benedetti si tratta di un vero e proprio “dovere”, nell’accezione del termine per cui, in assenza di cooperazione, non ci saranno grosse possibilità di uscita rapida dalla crisi:
Noi possiamo… o meglio direi che dobbiamo cooperare per costruire l’infrastruttura tecnologica che ci aiuti a fare la differenza, sia nella nostra missione giornalistica sia nella nostra missione d’impresa. […] Gli editori italiani si sono già incamminati su questa strada. Sei anni or sono hanno formato il Premium Publisher Network per vendere pubblicità contestuale di solo testo a prezzi premium. Ora il consorzio comprende pubblicità display premium […]. Il progetto dell’edicola digitale italiana segue la stessa direzione. Altri progetti collaborativi sono in corso.
Editoria e tassisti
L’ambizione potrebbe non mancare: mettere assieme testate giornalistiche, ONG, fondazioni e altre entità consentirebbe incroci di dati mai visti prima, consentendo la creazione di “infrastrutture di conoscenza” al servizio tanto del lavoro giornalistico, tanto del business di impresa. Secondo De Benedetti c’è molto da fare per cambiare l’editoria al proprio interno, ma ciò non può avvenire se prima non cambieranno le condizioni dall’esterno. Il problema è a livello di priorità, ed è quel che smonta in buona parte la disamina di De Benedetti: in questa fase non è l’editoria ad avere il coltello dalla parte del manico e chiedere alle istituzioni di lottare contro l’innovazione ha non poche assonanze con quanto sta avvenendo nella battaglia tra taxi e Uber.
Non a caso, forse, le parole di De Benedetti hanno sibilato sulle pagine de La Repubblica proprio nelle ore in cui i clacson dei taxi sibilavano tra le strade di tutta Europa. La sfida è infatti più alta, sfugge al semplice ragionamento di ambito e di corporazione e coinvolge mercati e società: su questo De Benedetti ha ragione, ma la sua disamina ignora (probabilmente in modo doloso) una visione più ampia che contestualizza e motiva gli attriti in atto. Manca, soprattutto, una assunzione di responsabilità e un motto proattivo: l’editoria non potrà salvare se stessa se muoverà i propri passi soltanto al netto delle tutele garantiste delle istituzioni, le medesime che fino ad oggi hanno al contrario consentito all’editoria di sopravvivere al di fuori delle leggi di mercato e, spesso e volentieri, dalle leggi del giornalismo stesso.