Sondra Arquiett aveva un profilo Facebook dove postava foto del figlio, raccontava di sé, ma non c’era nulla di vero. Lei era in stato di fermo mentre un poliziotto della DEA usava un fake account per trarre in inganno i suoi contatti. Una vicenda paradossale, raccolta oltreoceano, racconta dei limiti valicabili sui social network e di quello che rappresentano già oggi per chi ha il compito di separare i buoni dai cattivi.
La vicenda svelata in tutti i particolari da BuzzFeed riprende in parte la questione del possesso dei dati personali contenuti negli smartphone delle persone fermate dalla polizia: fino a che punto può spingersi la forza dell’ordine? E con quali scopi? Domande a cui ha cercato di rispondere la Corte Suprema americana a proposito del necessario mandato per ispezionare un device, esattamente come fosse una estensione delle proprietà personali dell’individuo soggette a delle cautele. Sentenza che evidentemente non ha impedito agli inquirenti che avevano arrestato la donna di violare la sua privacy – e i termini del servizio Facebook – per il buon esito delle proprie indagini. L’idea, infatti, ha fatto guadagnare l’arresto di uno spacciatore.
La storia del processo
La storia processuale ha inizio quando la donna, in libertà vigilata, si è accorta che alcune sue foto erano su Facebook in una pagina a suo nome che lei non aveva mai aperto. Intuito cosa era potuto accadere, ha denunciato per violazione della privacy la polizia che l’aveva arrestata e aveva approfittato delle foto presenti nel suo cellulare per creare un finto account Facebook e così spiare la sua rete di amicizie. L’operazione di catfish era gestita dall’agente speciale Timothy Sinnigen della US Drug Enforcement Administration. La cosa incredibile è che per ora non ha ottenuto nessuna scusa: citato in giudizio, l’agente si è difeso spiegando che si tratta di un uso legittimo e che l’arrestata aveva dato un implicito consenso all’uso di questi contenuti per proseguire le indagini. Insomma, in polizia e contro la droga tutto è lecito.
Gli esperti di privacy si dividono
Il caso limite sta facendo molto discutere gli esperti della materia. Secondo alcuni, si tratta di una inaccettabile sequela di reati, che vanno dal falso, alla frode e alla violazione della privacy. Secondo altri, invece, è solo un esempio di infiltrazione 2.0: la tecnica di infiltrarsi nel giro del traffico di stupefacenti è molto assodato, e in questo caso la copertura è data da un account falso invece di una identità falsa. Neppure Facebook ha voluto entrare nello specifico, ha soltanto ribadito il proprio impegno a fa rispettare il criterio dell’assenza di identità false e che non sono previste eccezioni per le indagini di polizia. Quel che è certo, è che Internet e i social permettono usi che probabilmente ancora non sono stati immaginati. Dunque, in assenza di norme per regolarli.