Pagare un indennizzo per un post, finire in tribunale per un tweet. Una sentenza, di primo grado, del tribunale di Livorno potrebbe fare scuola: una 27enne, licenziata dal centro estetico dove lavorava, ha cominciato a scrivere sulla sua bacheca messaggi di forte critica all’ex capo, che il giudice ha considerato diffamanti. L’importanza della sentenza – se fosse confermata in Cassazione – risiede nella considerazione che questi mezzi hanno raggiunto una tale popolarità «da essere paragonabili ad un giornale». Perciò sottostando alle medesime norme sulla lesione dell’altrui reputazione.
Il 2013 è iniziato male per l’espressione in Rete: prima questa sentenza, caduta a Capodanno ma soltanto ora resa pubblica, poi quella capitata al blogger Massimiliano Tonelli, fondatore di Cartellopoli.net, condannato a nove mesi in primo grado per istigazione a delinquere. La questione è estremamente complessa nelle sue diramazioni, ma semplice in un concetto di fondo da ricordare sempre: la Rete non è un luogo libero dalle responsabilità derivanti dalle proprie parole. Com’è giusto che sia e come previsto dall’articolo 595, terzo comma, del codice penale.
Va però fatto notare che nella sentenza, anticipata sul Tirreno, si parla dell’insultare qualcuno sulla propria pagina come di «un delitto di diffamazione aggravato dall’aver arrecato l’offesa con un mezzo di pubblicità». Il social non come mezzo soltanto equipollente, ma addirittura come aggravante. Come se l’utente fosse un giornalista, precisamente come capitato al direttore del Giornale Alessandro Sallusti, poi graziato dal Presidente della Repubblica. Così la sentenza sulle ragioni della multa (mille euro) comminata alla ragazza:
Alla luce del cennato carattere pubblico dello spazio virtuale in cui si diffonde la manifestazione del pensiero del partecipante che entra in relazione con un numero potenzialmente indeterminato di partecipanti e quindi la Conoscenza da parte di più persone e la possibile sua incontrollata diffusione.
È possibile dunque finire in galera per un tweet? Lo spiegano bene due specialisti come Francesco Paolo Micozzi e Ernesto Belisario, noto anche come @diritto2punto0, estensore dell’appello in Rete ai candidati delle elezioni di febbraio. Nel nostro ordinamento esistono leggi precise, magari antiquate, ma precise, che però non sono mai state adeguatamente aggiornate al mondo della tripla W (basti pensare a quella «incontrollata diffusione» di cui parla la sentenza che non corrisponde alla reale natura dei social se utilizzati al meglio).
Pensate forse che 140 caratteri non siano sufficienti a diffamare una persona, una società, un ente etc? Beh… sbagliate! Addirittura il messaggio diffamatorio potrebbe essere contenuto anche in un hashtag (ad es. “#raccomandati”). Grande attenzione va fatta anche nel caso del “retweet”, dal momento che non ha alcuna rilevanza giuridica l’aver inserito, sul proprio profilo, la solita frase “Reetweets are not endorsement” (ossia i retweet non costituiscono approvazione).
Formalmente, nessuno degli utenti di un social è come un giornalista, ma questo è un paradosso negativo nei casi di possibile diffamazione. Perché il giornalista è soggetto all’esimente del diritto di cronaca – se rispetta i tre criteri di verità dei fatti, interesse pubblico e continenza della forma – mentre un utente qualsiasi, oltre a non avere alcuna forma di protezione, potrebbe cascare in una aggravante derivante dal mezzo utilizzato, ormai diffuso quanto e più di altri mezzi di informazione, persino semplicemente ricopiando il messaggio di qualcun altro.
Non molti lo sanno, ma questa è soltanto l’ultima sentenza che insiste sulla circolazione del messaggio denigratorio in Rete come un’aggravante: ce n’è una, storica, addirittura risalente al 27 dicembre 2000, che riguarda le mail.
Una condizione di forte pressione sugli internauti che può avere delle ripercussioni, soprattutto nell’ambito della libertà di espressione dei blogger non professionisti quando incorrono nell’irritazione della politica, perché purtroppo accompagnata dal vizio della “querela facile”: spesso una forma nascosta di intimidazione. Dopo il caso Sallusti si è parlato di una possibile riforma (la depenalizzazione della diffamazione a mezzo stampa, oppure un giro di vite sulle richieste di danni prive di fondamento): bene, ma sarà indispensabile che stavolta ci si ricordi anche del Web e di chi lo abita. Altrimenti non servirà a nulla.