Nei suoi dieci anni di vita, Facebook ha rivoluzionato il modo di comunicare, socializzare, connettersi con le persone e condividere pensieri e attimi della propria vita, ma in alcuni casi sembra essere andato oltre, superando una pericolosa soglia e dando vita a quella che sembra essere una sorta di dipendenza non facile da sconfiggere. Né da identificare. Sì, perché la Facebook-addiction può diventare una problematica reale in grado di influire negativamente sull’emotività e sui comportamenti delle persone.
Occorre però anzitutto capirsi sui termini, poiché anche la strumentalizzazione della dipendenza stessa rischia di diventare un problema:
Dipendenza:
In medicina, condizione di incoercibile bisogno di un prodotto o di una sostanza, soprattutto farmaci, alcol, stupefacenti, riguardo ai quali si sia creata assuefazione e la cui mancanza provoca uno stato depressivo, di malessere e angoscia (dipendenza psichica), e talora turbe fisiche più o meno violente, cioè nausea, dolori diffusi, contrazioni ecc. (dipendenza fisica).
In psicanalisi, situazione di subordinazione dell’Io rispetto alle esigenze del mondo esterno, dell’Es e del super-Io; anche il permanere, nel nevrotico adulto, di una inconscia “posizione” di non-autonomia rispetto a immagini materne o paterne.
È questa la definizione di dipendenza tratta dall’enciclopedia Treccani: alla luce di tale definizione è allora possibile parlare davvero di una Facebook-addiction? La piattaforma di Zuckerberg non è un farmaco, un alcolico o una sostanza stupefacente, ma al tempo stesso il suo uso smodato provoca una serie di disturbi comportamentali che possono essere in qualche modo accostati a quelli causati dagli stupefacenti. Se di vera e propria dipendenza non si può dunque parlare (poiché viene a mancare la fisicità del bisogno, ma non certo la sua dimensione psicologica), come tale è però opportuno trattare il fenomeno, così da non sottovalutarne alcun effetto correlato. Al tempo stesso cancellarsi da Facebook non è una soluzione: gestire una difficoltà, invece di aggirarla, è molto più utile poiché insegna ad affrontare il problema invece di avventurarsi in un qualche surrogato.
Innanzitutto Facebook può causare insoddisfazione verso se stessi e soprattutto infelicità. Moltissimi aggiornamenti di stato sono infatti creati ad hoc, come rigurgito di un impulso istintivo, per esternare (anche fingendo) un qualunque momento felice della propria vita. Tale bisogno deriva dalla necessità di affermazione di sé stessi, dalla volontà di dipingere un sé migliore e dai reflussi di una socialità online che necessita di autoesposizione continua per segnare una presenza al cospetto degli altri. In questa dinamica di gruppo, però, si tende a stimolare tale comportamento anche in persone altrui, le quali infatti non vogliono sentirsi da meno e a loro volta trasmettono in Rete un surrogato di felicità, alimentando così un circolo vizioso dal quale è difficile uscire. È inoltre curioso notare come, nonostante la crescente preoccupazione per la mancanza di privacy provocata dalle attività online, vi sia ancora un certo numero di persone che condivide volontariamente i propri segreti, ma ciò ha strettamente a che fare con la gratificazione che deriva dall’esser ascoltati e sostenuti dai propri coetanei. Soddisfare però questo bisogno in maniera eccessiva va ad alterare la capacità di capire ciò che è opportuno condividere e ciò che sarebbe opportuno celare e pertanto può causare successivi possibili rimpianti e dunque anche in questo caso infelicità.
Facebook causa anche paranoia. «perché [persona x] non risponde al mio messaggio nonostante lo abbia visualizzato?»: se si ripone eccessiva fiducia nel mezzo, eleggendolo come strumento primo di socializzazione (e laddove gli spazi di condivisione vengono a diminuire, il rischio di concentrare tutto su un social network sono reali), la deriva paranoica è dietro l’angolo. Si tratta di un sintomo comune che varia per quantità da persona a persona, e che può anche giungere a un livello pericoloso. Inoltre, il network alimenta anche la natura voyeuristica delle persone: gli esseri umani sono per natura estremamente curiosi di sapere cosa stanno facendo e dicendo gli altri e Facebook soddisfa facilmente questo bisogno. Comuni dinamiche di branco e di autoaffermazione, la cui declinazione online, in un contesto di progressivo depauperamento del tessuto sociale, viene ad avere derive non sempre controllabili: un senso del sé fragile, un’identità non sufficientemente forte, un contesto di solitudine ed altri ingredienti di questo tipo possono creare il sostrato necessario all’emergere di stati alterati della personalità.
L’eccitazione di un “mi piace”
Anche se non esistono statistiche affidabili sulla Facebook-dipendenza – non è un disturbo attualmente riconosciuto a livello medico – sono frequenti le preoccupazioni per chi inizia a sottodimensionare la propria vita reale in favore di quella online, ma il distacco dal social network è reso complicato dal suo essere un surrogato della felicità, quindi un elemento utilizzato a soddisfazione di un bisogno reale e proprio per questo legato quindi ad una dinamica di dipendenza. Uno studio pubblicato dall’Università del North Carolina dimostra infatti che a ogni “Mi piace” ricevuto, l’organismo rilascerebbe una piccola dose di dopamina, ovvero quel neurotrasmettitore coinvolto nei fenomeni di dipendenza e solitamente rilasciato dal corpo quando ad esempio si fa uso di droghe o quando si fa sesso. Le notifiche di Facebook possono dunque avere lo stesso effetto, alternando però così la psiche tra i famigerati “Stato A” e “Stato B” di bisogno e soddisfazione, con tutto quel che la cosa implica in termini di assuefazione. La differenza rispetto alla dipendenza da uso di oppiacei o alcolici è nella mancanza di una conseguenza fisica dall’assenza di somministrazione: la dipendenza va pertanto intesa in senso lato, come metafora del legame con il social network, del quale si viene ad avere un bisogno innaturale per calmierare un bisogno altrettanto innaturale di legami e relazioni, anche se deboli, anche se fasulli, anche se simulati, anche se virtuali, anche se remoti.
Questa dipendenza può causare un senso di evasione dalla realtà con una conseguente perdita del controllo e la riduzione ulteriore dei tempi in cui si socializza al di fuori della Rete (ottenendo pertanto esattamente il contrario di quanto desiderato, dunque all’interno di un circolo vizioso che si autoalimenta). Sorgono infatti diversi problemi quando gli utenti trascurano famiglia, amici e lavoro perché trovano Facebook un luogo più piacevole (ma soprattutto più facile) del mondo reale; c’è chi controlla il newsfeed appena si sveglia, chi lo fa quando dovrebbe lavorare, mentre mangia, addirittura quando è in compagnia e dovrebbe preferire conversazioni reali a quelle virtuali, e ancora una volta prima di andare a dormire. Se spesso e volentieri tali comportamenti sono un passatempo o un modo per condire una vita sociale già attiva e ricca, la cosa può essere invece in certi casi una modalità esclusiva per rapportarsi ad altrui persone. Un impegno costante su tale piattaforma – accentuato dal massiccio uso di Facebook su smartphone – ha pertanto un effetto negativo potenziale sulle emozioni e può causare derive “patologiche”.
Come tutte le ossessioni, l’impossibilità di collegarsi costantemente a Facebook può infatti causare sintomi di astinenza, tra cui rabbia, ansia, depressione e frustrazione, e ciò dovrebbe essere motivo di preoccupazione. Parte del suo fascino deriva dal fatto che permette di sfuggire temporaneamente alla vita normale per un mondo più vibrante ed emozionante (almeno all’apparenza) ed è proprio questo uno dei fattori che rende difficile il distacco dalla piattaforma, ma nonostante ciò non deve in alcun modo andare a influire negativamente sulla routine quotidiana. Questa la regola generale da seguire in ogni caso: rispetto ad altri tipi di ossessioni/dipendenze, quella causata da Facebook può essere difficile da individuare e più facile da giustificare.
L’origine del problema
Il problema, in ogni caso, non sembra mai essere Facebook in sé: il problema di una dipendenza di questo tipo sta in una personalità fragile, nell’assenza di un tessuto sociale in grado di accogliere, in una dinamica di gruppo difficile da gestire ed in altri fattori ancora. Quando Facebook è una naturale estensione della relazione tra individuo e collettività, altro non può essere se non una esaltazione della dinamica sociale; quando la relazione tra individuo e collettività è impedita da una qualsivoglia causa, invece, l’utilizzo del surrogato virtuale può essere da una parte un’ancora di salvezza e dall’altra un pericoloso incipit alla dipendenza.
In ognuno di questi casi occorre pertanto guardare anzitutto al sé, agli impulsi a monte di ogni scelta, agli istinti che vengono soddisfatti sprigionando felicità. Perché guardare alla dipendenza rischia di essere altrimenti soltanto un modo per ignorare tutte le fragilità croniche che stanno a monte, laddove risiede la vera patologia.