Il Web ha imposto uno scenario nuovo al modo di comunicare delle persone: ci ha messi tutti assieme, tutti sullo stesso piano, tutti nello stesso calderone. Uscivamo da decenni in cui i luoghi di discussione erano un abbeveratoio prima, l’angolo di una strada poi, quindi la panchina, infine il bar; ma eravamo sempre pochi, sempre noti, sempre in relazione stretta, sempre faccia a faccia. Poi è venuto il Web e ci ha messi l’uno di fronte all’altro: una evoluzione durata un ventennio, dunque non certo una cosa istantanea, ma pur sempre con una velocità devastante se si pensa a come in venti anni si siano stravolte modalità secolari di comunicare tra le persone, di informarsi sui fatti, di stringere relazioni.
I social network sono stati l’ennesimo colpo di acceleratore. Ora persone e comunità si trovano a confrontarsi su Facebook o su Twitter, su Instagram o su Snapchat, ma tutto attorno ci sono strutture, enti, sistemi e reti che viaggiano ad altre velocità e sulla base di altri paradigmi. Le dinamiche del Web non sono mai state realmente metabolizzate e quel che ne consegue sono attriti continui, stridenti, fastidiosi, rumorosi.
Ecco da dove arriva il frastuono di questi giorni. Ed ecco perché dovremmo seriamente pensare in modo più maturo al modo in cui ognuno di noi comunica. Non basta più puntare il dito sui social media: bisogna puntare il dito sulle persone. Non basta una azione centralizzata: serve un’azione decentrata e capillare, diffusa e basata su regole che molto hanno a che fare con il senso civico. Servono consapevolezza e responsabilizzazione. Serve maturità, perché è fondamentale per evitare che le deformazioni del sistema comunicativo possano iniziare a scaricare scorie tutto attorno. Contagiando e imputridendo anche altri ambiti.
Un ecosistema inquinato
Con urgenza, e senza appello, bisogna anzitutto far proprie alcune considerazioni, ingredienti da utilizzare per capire quanto sta accadendo e per agire al fine di risolvere i nodi che emergono:
- se il canale della comunicazione è virtualmente infinito, il canale dell’attenzione non lo è. Ogni qualvolta leggiamo un post, ogni qualvolta prendiamo in mano lo smartphone per una notifica, ogni qualvolta riceviamo una mail, la nostra attenzione viene svicolata da altro e il nostro tempo viene dedicato a questioni che non solo quelle a cui si era data precedentemente priorità. La moltiplicazione dei messaggi è stata ricchezza fin quando le nostre possibilità ricettive erano ampie, oggi invece diventa semplicemente sperpero e imbarazzo: non abbiamo abbastanza attenzione e tempo da investire per tutti gli input che riceviamo, dunque occorre trovare il modo per razionalizzare il rapporto tra sé e le informazioni circostanti;
- siamo parte di un sistema univoco, onnicomprensivo e totalizzante delle comunicazioni. Per la prima volta l’uomo si trova a parlare in un bar frequentato da miliardi di persone e spesso le proprie parole ne raggiungono migliaia nel giro di poche ore. Non solo bisogna essere in grado di filtrare le comunicazioni in entrata (senza affidarsi ciecamente agli algoritmi: la bubble filter sta già facendo danni), ma bisogna anche operare al fine di evitare di intasare il canale con ulteriore rumore di fondo. Così come non bisogna fermarsi a curiosare sulla strada ove avviene un incidente, così come non bisogna parlare ad alta voce in un locale, così come non bisogna occupare la corsia sinistra senza motivo: se si fa parte di un sistema unico e onnicomprensivo delle comunicazioni, occorre non solo seguirne le regole, ma anche la netiquette e oltre. Oltre la netiquette cosa c’é? C’è la discrezione, la solidarietà, la consapevolezza dell’essere uno tra molti;
- sempre più spesso quando si parla di realtà online si ragiona sulla misura delle comunità. E le comunità spesso si sono rette (anche e soprattutto dal punto di vista linguistico) sul concetto di “competizione”. Le parole stesse competono tra di loro, così come le persone, per sopravvivere. Sui social media questa competizione è tangibile. Non è una guerra, sia chiaro: non si tenta di eliminare l’avversario. Si tenta però inevitabilmente di sopravvivere cercando sporadica visibilità, piccoli sprazzi di luce da vivere come boccate d’aria dopo lunga apnea. I like gonfiano il petto, le condivisioni sono un modo per arricchire la propria vetrina, gli insulti sono un modo per rafforzare le proprie idee e quelle della propria cerchia. La realtà è però differente: la solidarietà, e non la competizione continua, deve essere alla base di un sistema comunitario efficiente. Le persone (la massa) devono arrivare a vivere le comunicazioni online non come un modo per cercare di sopravvivere in un sistema che si nutre di visibilità, ma come metodo per migliorare la vita “materiale”;
- non a tutti interessa quel che stai scrivendo. Non moltiplicare il tuo messaggio all’infinito, quindi: pensa alla sua efficacia, non al suo volume. Se parli di lavoro, condividi con i colleghi; se parli di te, condividi con i tuoi cari; se parli di un luogo, condividi con chi lo conosce. Prendi la mira, non sprecare le cartucce. E apprezza chi avrà la medesima cura per te e per la tua ecosfera digitale.
La realtà dei fatti è che non possiamo affidare a Facebook la morte delle bufale così come non possiamo affidare alle discariche lo smaltimento dei rifiuti. Serve selezione capillare, gestione consapevole e smaltimento ragionato. L’introduzione della raccolta differenziata è ciò che ha dato il via ad un processo di razionalizzazione del ciclo dei rifiuti: così sia anche per le comunicazioni, ove molta della pulizia dovrebbe partire dai singoli. Come evitare di creare rifiuti nel mondo delle comunicazioni? Regole semplici, per molti versi note ai più, ma troppo raramente applicate e applicabili alle masse:
- evitare le banalità: non arricchiscono la propria immagine e deturpano l’ambiente;
- ragionare le condivisioni: devono avere una utilità per gli altri, non per sé;
- evitare le bufale: sono gli agenti più inquinanti, avvelenano chi ne fa uso e rimetterle in circolazione è compartecipazione nella colpa, mentre verifica, studio e senso critico rappresentano valore per sé e per gli altri;
- creare qualità: cercare la qualità dei propri contenuti significa cercare qualità in sé stessi, donando al prossimo il meglio di sé; se non c’è impegno non c’è valore, quindi il dono perde di significato e diventa mera inutilità.
Stiamo inquinando l’ecosistema nel quale viviamo la nostra dimensione immateriale. Prima lo capiamo, prima inizieremo a pensare a come evitare che si renda asfittico.
Una sensibilità ecologica per le comunicazioni
Difficile capire chi possa avere l’autorità morale per inculcare atteggiamenti più “ecologici” nel mondo delle comunicazioni, ma le sanzioni delle comunità possono far molto. Agire per le comunità invece che per sé stessi significa anche questo: sanzionare comportamenti inquinanti, evitando like e condivisioni per costringere all’oblìo. L’ecologia delle comunicazioni online non può nascere dall’oggi al domani, né può essere imposta. Fa parte però di una accezione più generale di “consapevolezza” che sugli altri media è stata sempre maturata (con i suoi modi, con i suoi tempi): righe e margini sul quaderno, il volume della televisione, la cura del vinile e altri comportamenti virtuosi sono tasselli di un ordine generale a cui presto o tardi dovrà avvicinarsi anche il Web.
Che la comunicazione in ogni società costituisca un sistema in cui ogni elemento dipende dagli altri che gli stanno a fianco, e forse perfino un organismo; e che dunque sia possibile parlare a questo proposito di un’ecologia, cioè di una rete di dipendenze reciproche in cui ogni elemento si definisce, si nutre e compete rispetto all’esistenza e alle attività degli altri suoi simili in maniera tale che un equilibrio di fondo regga la coesistenza di elementi diversi: questo è un pensiero diffuso anche se raramente esplicitato in chi si occupa di comunicazione
Ugo Volli, “Quale ecologia della comunicazione?“
L’Ecologia è per definizione lo «studio delle interrelazioni che intercorrono fra gli organismi e l’ambiente che li ospita»: non avrebbe senso non applicare medesima asserzione anche nel mondo dell’immateriale, laddove organismi e ambiente si esplicano nel virtuale pur con sostanziali e concrete ricadute nel mondo materiale. Una raccolta differenziata dei post sui social media eviterebbe l’impatto ambientale che avvertiamo in questi giorni, nei quali si vorrebbe pensare ai social network come un sistema di informazione ideale per gestire la crisi post-sisma e invece ci si trova a dribblare polemiche, bufale, giudizi affrettati, analisi disinformate, complottismi e altro ancora.
Gettare rifiuti per la strada è punito dalla legge. La legge non può invece, e giustamente, impedire la libertà di espressione. Gettare rifiuti per la strada è tuttavia atteggiamento stigmatizzato dalle comunità e fonte di intimo senso di colpa per persone che sanno di far parte della comunità stessa: la produzione di comunicazioni online viaggi sui medesimi binari, avendo paletti come l’etica personale da una parte e la sanzione sociale dall’altra a limitare il rumore di fondo ed a favorire la qualità del bene collettivo. Troppo spesso vengono a mancare sia un paletto che l’altro, aumentando così il proprio impatto ambientale (in senso bidirezionale) nei confronti dell’ecosistema comunicativo che ci circonda.
Non possiamo trattare i social network alla stregua delle discariche. Né imputare ai social network tutte le colpe. Siamo noi a riempire le discariche, sempre e comunque. Capiamolo, tutti, insieme.