La prima Enciclica di Papa Francesco fa discutere prima ancora di essere ufficializzata dal Vaticano. I media hanno infatti subito francobollato le parole di Papa Francesco come anti-digitali, poiché indicanti un dito puntato contro le distorsioni che il mondo online sta arrecando alla dimensione reale dei rapporti sociali. Non serve troppa attenzione, però, per notare come tra le parole di Papa Francesco e Giovanni Paolo II vi sia una lineare continuità: dapprima, un incoraggiamento ad abbracciare i nuovi media con coraggio; in seguito, per trasformare il coraggio in consapevolezza.
L’Enciclica non è ancora stata pubblicata, ma il testo è in realtà trapelato ed ha già trovato la strada della pubblicazione online. Le polemiche sulla fonte del “leak” e sulle prime interpretazioni delle parole del Papa stanno in queste ore prendendo il sopravvento rispetto ai contenuti, i quali meritano invece la luce dei riflettori. E il modo con cui Papa Francesco affronta il mondo dei social media è pungente: non si tratta di una bocciatura del mezzo, come qualcuno ha voluto lasciar intendere, ma di una bocciatura del modo in cui l’uomo ne sta facendo uso. Come ogni medium, anche i social media stanno infatti lasciando emergere le proprie caratteristiche intrinseche ed i propri limiti oggettivi, ma deve essere l’uomo ad andare oltre e a riprendere in mano le redini della comunicazione, senza lasciare che gli strumenti digitali prendano il sopravvento.
L’Enciclica e il digitale
Il riferimento al digitale è contenuto al punto 47 dell’enciclica (qui), nel capitolo IV dedicato al “deterioramento della qualità della vita umana e degradazione sociale“. Dopo aver bocciato il rapporto tra l’uomo e l’ambiente, nonché la crescita smisurata e disordinata delle aree urbane, l’Encliclica sposta l’attenzione sulle conseguenze che le innovazioni tecnologiche stanno portando sul piano occupazionale e sociale. Nello specifico, a questi elementi si aggiungono «le dinamiche dei media e del mondo digitale, che, quando diventano onnipresenti, non favoriscono lo sviluppo di una capacità di vivere con sapienza, di pensare in profondità, di amare con generosità». E continua: «I grandi sapienti del passato, in questo contesto, correrebbero il rischio di vedere soffocata la loro sapienza in mezzo al rumore dispersivo dell’informazione. Questo ci richiede uno sforzo affinché tali mezzi si traducano in un nuovo sviluppo culturale dell’umanità e non in un deterioramento della sua ricchezza più profonda. La vera sapienza, frutto della riflessione, del dialogo e dell’incontro generoso fra le persone, non si acquisisce con una mera accumulazione di dati che finisce per saturare e confondere, in una specie di inquinamento mentale. Nello stesso tempo, le relazioni reali con gli altri, con tutte le sfide che implicano, tendono ad essere sostituite da un tipo di comunicazione mediata da internet. Ciò permette di selezionare o eliminare le relazioni secondo il nostro arbitrio, e così si genera spesso un nuovo tipo di emozioni artificiali, che hanno a che vedere più con dispositivi e schermi che con le persone e la natura. I mezzi attuali permettono che comunichiamo tra noi e che condividiamo conoscenze e affetti. Tuttavia, a volte anche ci impediscono di prendere contatto diretto con l’angoscia, con il tremore, con la gioia dell’altro e con la complessità della sua esperienza personale. Per questo non dovrebbe stupire il fatto che, insieme all’opprimente offerta di questi prodotti, vada crescendo una profonda e malinconica insoddisfazione nelle relazioni interpersonali, o un dannoso isolamento».
L’Enciclica, nel dettaglio
I grandi sapienti del passato, in questo contesto, correrebbero il rischio di vedere soffocata la loro sapienza in mezzo al rumore dispersivo dell’informazione.
La prima riflessione è legata alla difficoltà del Web di incoraggiare l’approfondimento analitico. Aspetto innegabile, semplice constatazione di una deriva da tempo nota e contro la quale poso si è fatto finora per arginarne i possibili effetti collaterali. La grande qualità degli strumenti digitali, infatti, è nel mettere rapidamente a disposizione molte informazioni, spesso completamente irraggiungibili con mezzi analogici, ma al tempo stesso l’uomo si trova sommerso da un eccesso di dati e fatica a mettervi ordine logico. Quel che viene a mancare è dunque spesso il tempo e la capacità di intepretare quel che ci si trova sotto gli occhi, limitandosi a subire la pioggia informativa possibile con poche query e pochi click.
Il “rumore dispersivo dell’informazione” è altresì quello delle notifiche e del multitasking, quello delle continue sollecitazioni che si ricevono da device che tendono a calamitare l’attenzione dell’utente per monetizzarne al meglio le attività. L’Enciclica guarda a questa deriva in prospettiva, ricordando come l’assenza di capacità analitica tolga dignità all’intelligenza umana per spostare il peso dell’elaborazione sulle macchine. Queste ultime, tuttavia, si limitano ad operare sulla base di algoritmi, i quali non considerano contesti o carità: senza una guida umana, l’innovazione rischia insomma di risultare più fredda e distaccata, meno attenta ai bisogni dell’uomo e quindi potenzialmente deleteria nel suo impatto sociale.
Questo ci richiede uno sforzo affinché tali mezzi si traducano in un nuovo sviluppo culturale dell’umanità e non in un deterioramento della sua ricchezza più profonda
Etichettare l’Enciclica come anti-innovazione sarebbe però azione dolosa, perché così non è. All’ammonimento nei confronti del digitale, infatti, fa seguito un immediato contrappeso: gli strumenti del mondo digitale non vanno allontanati, ma occorre bensì una crescita culturale della società umana affinché si possa portare avanti un rapporto più consapevole nei confronti di questo strumento.
Il ragionamento tra le righe è evidente: l’uomo non sta tenendo il passo con la feroce crescita della tecnologia e vive dunque oggi un gap culturale che non porta la società a guidare con la necessaria forza quella che è la direzione intrapresa dall’innovazione. Scommettere sulla cultura significa scommettere sull’intelligenza dell’uomo e sulla sua priorità rispetto alla macchina; pensare che l’uomo debba delegare alla macchina le sue funzioni pensanti significa invece cedere e lasciarsi surclassare.
La vera sapienza, frutto della riflessione, del dialogo e dell’incontro generoso fra le persone, non si acquisisce con una mera accumulazione di dati che finisce per saturare e confondere, in una specie di inquinamento mentale
Il timore è ribadito nelle righe successive del testo firmato da Papa Francesco ed il riferimento sembra essere in modo più esplicito ai social network ed al modello di relazione che vanno promuovendo: il mero accumulo di informazioni relative ai propri contatti sociali non fanno di questi elementi una vera amicizia. Piuttosto, queste informazioni frammentarie si stratificano in modo disordinato creando semplice disordine, nozionistica non strutturata. La moltiplicazione delle informazioni non è intelligenza, ma soltanto memoria delegata.
[…] le relazioni reali con gli altri, con tutte le sfide che implicano, tendono ad essere sostituite da un tipo di comunicazione
mediata da internet. Ciò permette di selezionare o eliminare le relazioni secondo il nostro arbitrio, e così si genera spesso un nuovo tipo di emozioni artificiali, che hanno a che vedere più con dispositivi e schermi che con le persone e la natura.
Questo passaggio è quello probabilmente più profondo e più attento alla natura dello strumento online. L’Enciclica, infatti, ricorda come i social network (benché non vengano mai nominati, sono la miglior incarnazione dell’entità ideale che può rappresentare il mondo dei social media) consentano di costruire le proprie cerchie sociali sulla base di specifiche volontà personali. Se la persona può generare il proprio mondo a propria immagine e somiglianza, tenderà a circondarsi di elementi con i quali il disaccordo è limitato, così da meglio cullare le proprie vanità, il proprio ego e il proprio desiderio di tener lontane preoccupazioni e affanni. Quella che è una tendenza naturale dell’uomo, viene cavalcata dai social media moltiplicandone l’effetto: alla coerenza delle sfere sociali personali fanno da controcanto le forti contrapposizioni contro chi la pensa in modo differente, senza trovare il campo comune su cui far confluire conoscenze e idee, su cui ragionare e mediare. Chi è fuori dalla propria cerchia non è soltanto diverso, ma è anche nemico. La ghettizzazione del prossimo non può certo essere accettata dalla dottrina cristiana, che predica il contrario e che anche in questa occasione promuove l’incontro e la comunione.
Lasciare che i social media utilizzati abbiano il pieno controllo sulla formattazione dei rapporti sociali, però, significa affidare ai social media il controllo del modo in cui ci si esprime, delle persone di cui ci si circonda e per molti versi del contesto in cui si cresce. Ancora una volta, insomma, se l’uomo delega all’innovazione il proprio destino e non viceversa, sta abdicando ad una propria vocazione e ad una propria responsabilità. Se non ad un proprio dovere.
I mezzi attuali permettono che comunichiamo tra noi e che condividiamo conoscenze e affetti. Tuttavia, a volte anche ci impediscono di prendere contatto diretto con l’angoscia, con il tremore, con la gioia dell’altro e con la complessità della sua esperienza personale.
Il punto precedente è approfondito con maggior dettaglio sul lato sociale: se da millenni l’uomo è stato abituato a coltivare la propria sfera sociale in contesti che favorivano l’incontro e la convivenza sulla base di luoghi, interessi o professioni, oggi tutto ciò è limitato dal fatto che la conoscenza online è limitata e superficiale. Se non si scava oltre gli status e le condivisioni, insomma, diventa impossibile arrivare ad attingere alle vere emozioni. La società della comunicazione mediata, infatti, tende a mostrare la propria superficie senza lasciar emergere le emozioni più profonde, senza coinvolgere realmente.
Non solo: allontanare il dolore nascondendosi dietro uno schermo, significa lasciare altre persone sole nell’affrontare le proprie difficoltà. Non è un caso se online ci si imbatte soprattutto in manifestazioni di gioia, di odio o di indignazione: il dolore personale trova poco sfogo e ancor meno è in grado di catturare l’attenzione altrui. Lo stesso concetto di condivisione è mutato: dal concetto di “dono” (condividere, un tempo, significava fare a metà con il prossimo) si è passati a quello di “ricezione” (ti segnalo una cosa affinché tu possa dedicarmi la tua attenzione). Chiaramente la prospettiva è ribaltata, poiché non si mette più in gioco una parte di sé, ma si opera continuamente per cercare di moltiplicare le connessioni ed affermare così la propria presenza (e quindi la propria esistenza, la propria identità) all’interno di un sistema sociale codificato da algoritmi.
E col concetto di dono cambia anche quello di prossimo. Al soggetto singolo del destinatario si sostituiste l’utente. In questa condizione il donatore non offre un oggetto che rappresenta in qualche modo il rapporto tra lui e il destinatario. Il donatore offre qualcosa di no segnato da un rapporto affettivo unico.
Padre Antonio Spadaro, Cyberteologia
Non è una Enciclica anti-tecnologica
No, non è una Enciclica contro la tecnologia come vorrebbero suggerire titoli quali «Il papa contro la tecnologia» (Il Secolo XIX) o «Il Papa come Umberto Eco» (La Stampa). Ed ogni affiancamento alle parole di Umberto Eco altro non sono se non un modo per aizzare l’indignazione di quella sorta di ragione tecnologica che va affermandosi ormai da tempo (secondo cui l’innovazione è buona a prescindere, in quanto fonte di cambiamento). Suggerire attenzione e tutela culturale nei confronti dell’innovazione non significa opporsi a quest’ultima: significa suggerire piena consapevolezza, senza abbandonarsi ad una folle corsa ad occhi chiusi. Perché correre serve a poco, se non si ha bene in mente la direzione che si vuole intraprendere.
Una Enciclica che focalizza il concetto di sostenibilità (promuovendo un atteggiamento ecologico sia nei confronti dell’ambiente che nei confronti dei rapporti sociali) non può distogliere l’attenzione dalle distorsioni che la tecnologia ha riversato sul nuovo millennio. Ma in nessun passaggio del testo si propone una fuga dalla tecnologia, anzi: il “non abbiate paura delle nuove tecnologie” di Giovanni Paolo II ha semplicemente un seguito, frutto della maturata comprensione che anche la Chiesta sta accumulando sui nuovi media. E limitarsi ai titoli senza analizzare a fondo il testo significa confermare una volta di più i timori espressi dall’Enciclica.