Analizzare la nuova puntata della diatriba tra Eni e Report significa seguire una case history ormai di pubblico dominio, qualcosa che il mondo delle comunicazioni utilizza come una cartina di tornasole per comprovare le proprie tesi e affinare le proprie strategie. Ma la seconda puntata sembra raccontare qualcosa di più sull’ecosistema dei media: non solo una sfida tra strategie, ma anche un confronto tra piattaforme. Da cui dedurne nuovi e più complessi rapporti di forza.
Il problema è che un tempo la televisione era una piattaforma in grado di moltiplicare l’eco delle voci: risuonava in ogni casa, aveva un’aura di autorevolezza, recitava la storia in diretta; donava credibilità ai volti, creava verità e ne smontava altre; produceva il sistema paese con un telegiornale o con i sorrisi delle star del dopocena. Oggi quella scatola magica è diventata stretta, strettissima: un limite. E questo perché quella scatola ti chiude dentro, senza possibilità di uscirne, e ti costringe all’interno di confini che le nuove generazioni stanno spostando sempre di più in senso limitativo. Terminato il tempo di un programma, l’occhio passa infatti ad altro: una pubblicità, un tg, un film, ma ormai la voce è scomparsa e il più delle volte l’eco raccolta sui social media è poco più di un alito di like sparsi e intangibili, flussi disorganizzati e deboli, percettibili solo quando rapidamente agglomerati o casualmente virali.
Eni e Report, seconda puntata
Report sulle tracce della tangente descritta come la più grande al mondo. Parliamo del miliardo di dollari che sarebbero stati pagati da Eni per l’acquisto di un blocco petrolifero in Nigeria. Soldi che non sarebbero andati nelle tasche dei cittadini nigeriani, ma nella disponibilità dell’ex ministro del petrolio Dan Etete.
Quando Eni e Report ebbero a che fare l’una con l’altra nel 2015, sembrò facile una analisi basata sul “second screen” che consente a chiunque di commentare in parallelo quel che succede in tv, intravedendo in questa dinamica un chiavistello in grado di scardinare il potere precostituito dei media mainstream. Tuttavia in questo caso il gruppo del cane a sei zampe è andato ancor oltre, portando online, in diretta, addirittura un format video proprio. Dopo l’inchiesta ecco la contro-inchiesta online. Luci, scenografia, contenuti, canovaccio, regia e sicura presenza scenica: con la conduzione di Marco Bardazzi, direttore delle comunicazioni Eni, va in onda una televisione senza i limiti della televisione, liberata dal peso del palinsesto per potersi librare sulle ali dei social network.
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Come la prima volta, più della prima volta: rispondere all’inchiesta con una diretta significa mettere uno contro l’altro tv e social media, lasciano che le potenzialità di entrambi i canali si affrontino. Questa è la chiave della nuova diatriba ed è questo quel che il social media team Eni ha messo in campo: se la volta scorsa il tavolo è stato rovesciato, stavolta il tavolo è stato del tutto smontato. Così facendo è l’utente a scegliere la tesi che intende seguire, sapendo che la tv ha fatto il suo servizio ed i social network hanno svolto il proprio ruolo.
Il fatto che il contenuto provenga dall’azienda chiamata in ballo dalle accuse non sembra scalfire la forza del messaggio, poiché non si tratta di una risposta (giocoforza di parte) ad un soggetto terzo, ma si tratta di una replica ad un attacco preciso. Quanto più forte è il tono dell’accusa, del resto, tanto più ampi sono i margini per le controdeduzioni. In questo dialogo non c’è mediazione né arbitraggio, poiché nessuna delle due parti ne veste il ruolo: una parte contro l’altra, partita aperta, decida l’utente. A prescindere dai contenuti, perché non è di contenuti che si intende parlare in questa sede, lo scontro è però impari: l’accusa è chiusa all’interno della scatola parlante, contando nella grande eco che può raggiungere pur scontando una scarsa durevolezza dell’attenzione. La difesa ha invece orchestrato una replica ben coordinata online, sfruttando i social network come viva cassa di risonanza. Una partita combattuta ancora una volta su due campi differenti, ma con esiti ancor più forti rispetto alla prima occasione.
Se ad una certa ora Report ha terminato il proprio tempo ed è passato ad altro argomento, sui social media il materiale Eni era ormai pronto per le condivisioni, la diretta, il coinvolgimento e le reazioni. Tutto è in pasto agli utenti per una fruizione più approfondita, nella consapevolezza di avere un parere parziale, ma al tempo stesso cogliendo lo sforzo di trasparenza e di chiarimento messi in campo. Chi risponde online fa proprio il diritto alla replica giocando su campo proprio; chi attacca in tv, rinunciando alla diretta, ha fatto la propria scelta di campo ed è costretto nelle ore successive ad incassare. Dalle partite di andata e ritorno tra Eni e Report ne esce una maturata consapevolezza circa il gioco delle parti che i media possono interpretare: un caso destinato a fare scuola poiché, scardinando le dinamiche tradizionali delle inchieste, ne ha messe in luce nuove sfaccettature.
Il futuro dell’inchiesta è online?
E se il giornalismo di inchiesta dovesse trovare il suo futuro online? I format disponibili sarebbero molti, lo spazio sarebbe infinito ed i contenuti sarebbero formattati ad hoc per circolare laddove la nuova opinione pubblica va formandosi. Invece di avere le ali tarpate dai limiti della tv, l’inchiesta potrebbe tentare di giocare su un campo nuovo, con più spazi e maggiori opportunità espressive.
#Report da rivedere – #unaereoperilpresidente, l'inchiesta su Eni e la tangente più grande al mondo di @LucaChianca https://t.co/d1dMsscQCo pic.twitter.com/inEy2wDXjP
— Report (@reportrai3) April 10, 2017
Certo di difficoltà ce ne sarebbero molte comunque: la tv consente risultati immediati e di più facile monetizzazione, tanto che un programma come Report ha oggi senso di esistere solo in tv e non certo online. Inoltre in tv si ha il vantaggio/svantaggio del fatto che ci si gioca tutte le carte in pochi minuti, potendo dunque spiegare un teorema su larga scala, ma dovendo altresì scontare la necessità di un linguaggio persuasivo che sappia andare oltre l’argomentativo. Del resto spazio e tempo son pochi e vanno sfruttati al meglio. Online invece la battaglia di una inchiesta dovrebbe svolgersi nel lungo periodo, giocare di attacchi e contrattacchi, calibrando posizionamenti e moltiplicazione degli spazi. Necessiterebbe di un dispiego di forze ancor maggiore, ancor più capillare e ancor più oneroso. In un’epoca in cui la monetizzazione è il problema primo dell’editoria online, l’ipotesi non si pone.
Una inchiesta online sarebbe molto più ricca, ma anche molto più complessa: una guerra di trincea, di fatto, nella quale potrebbero subentrare anche logiche SEO e SEM (questo, del resto, suggeriscono gli architravi della piattaforma). Ma si potrebbe mettere in campo l’autorevolezza, senza cercare nella cassa di risonanza della tv il proprio accredito: sarebbe la community a dar forza alle inchieste, magari contribuendovi anche direttamente e sicuramente dandovi eco a colpi di condivisioni e retweet. Il tema delle fake news sarebbe messo alla prova dalle verità reciproche delle parti in ballo, ma forse è proprio l’inchiesta il terreno su cui questo nodo potrebbe definitivamente sciogliersi. Un’evoluzione necessaria, forse.
Dell’impossibilità di trasportare 50 milioni di dollari in due trolley #OPL245 #Report pic.twitter.com/MV9fK5rM8d
— eni (@eni) April 10, 2017
I limiti della tv
Eni ha dimostrato di saper smontare il potere della tv sfruttando le leve dei social network. Il giornalismo di inchiesta di matrice televisiva, al contrario, non ha ancora dimostrato (per molti motivi, la maggior parte dei quali di natura esogena) di saper contaminare gli spazi online. Non è certo una colpa, ma un dato di fatto: per il giornalismo d’inchiesta il mondo online è una grandissima sfida che va guardata come prossimo orizzonte – non ancora raggiunto né forse immediatamente raggiungibile. Il “second screen” è una possibilità subitanea, il presidio dei social network è una ipotesi in essere. Solo un spazio non è invece più in grado di contenere tutto quanto una vera inchiesta possa partorire, né veicolare tutte le complesse dinamiche che possa scatenare: la tv, scatola ormai limitante e riduttiva, è destinata a perdere questo ruolo o comunque a reinventarsi in qualche modo se non vuole trovarsi in breve tempo ad abdicare.
Il caso Eni vs Report ha comunque fatto nuovamente discutere. La differenza in questa diatriba mediatica sta nel fatto che in tv il tempo è una risorsa finita, mentre online non lo è; online ci si gioca tutto sull’attenzione che si riesce a raccogliere e sul rapporto di fiducia che si riesce ad instaurare con l’utenza. Inoltre in tv per vincere la propria battaglia occorre occupare il canale per quanto più tempo possibile (la politica è maestra in questo), online si vince invece facendo propria l’attenzione attraverso empatia, linguaggio e format. Le regole del gioco sono differenti, ma un canale ha maggiori opportunità rispetto ad un altro: saperlo presidiare fa la differenza e per le grandi aziende si tratta di qualcosa da capire rapidamente per arrivare a fare della comunicazione un proprio asset primario. Eni ha giocato le proprie carte su questo piano, sfruttando i propri margini di manovra su una piattaforma con regole completamente differenti: a perdere non è Report in sé, ma la tv in quanto medium. In quanto piattaforma. In quanto strumento magnifico e al contempo vetusto, imprigionato dalla propria storia e nella propria stessa natura.
Ascoltare il mondo esterno ed avere protocolli ben oliati per reagire è qualcosa di afferente non più soltanto ad un ramo aziendale, ma al DNA stesso dei brand. La televisione era e rimane un’opportunità, tanto per il giornalismo d’inchiesta quanto per le comunicazioni aziendali, ma non è più la sola e neppure la migliore: la capacità sta nel comprendere le dinamiche di ogni canale e ogni formato, ricavandone il meglio da ognuno ai fini dell’obiettivo da perseguire. Le professionalità del settore troveranno quindi sempre più spazio, perché di margini per l’improvvisazione ce ne sono ormai sempre di meno. Il Festival del Giornalismo di Perugia, a tal proposito, ha avuto molto di cui raccontare.