Essere Blockbuster significa essere grandi, grandissimi. Significa essere conosciuti in tutto il mondo, identificati ed apprezzati. Invidiati, anche. Essere Blockbuster significa avere racchiuso all’interno del proprio brand la descrizione di una mission, l’importanza di un grande gruppo ed una forte simbologia. Essere Blockbuster, infatti, significa essere un simbolo internazionale della globalizzazione e dover accettare anche qualche uova “no global” sulle proprie vetrine: un effetto collaterale della propria grandezza, un piccolo prezzo da pagare a fronte dell’immenso potere che tale esposizione consente.
Essere Blockbuster significa che il brand racchiude talmente valore da non riuscire a contenerlo tutto. Quando succede, il brand diventa un nome generico, descrizione e sinonimo dell’intero mercato in cui si opera. Essere Blockbuster, quindi, significa oggi essere sì essere un grande gruppo, ma anche rappresentare una categoria. Non solo: essere Blockbuster significa essere il più venduto, perchè chi domina una classifica come quella di Blockbuster significa che è salito in vetta alle preferenze di milioni e milioni di utenti. Essere Blockbuster, quindi, comunque lo si giri, è questione di pregio e vanto, grandezza e sontuosità, ricchezza e potere.
Ma tutto ciò accade in un sistema definito, del quale Blockbuster ha saputo farsi interprete ideale per anni. I problemi iniziano quando a crollare non è di per sé Blockbuster, ma l’intero sistema su cui l’azienda è comodamente seduta. Non si rimane in piedi durante una frana: se crolla la montagna sotto i propri piedi, si crolla assieme alla montagna e non c’è nulla da fare per fermarsi: l’unica speranza, semmai, è quella di non rimanerne travolti. Ed è quel che Blockbuster sta cercando di fare: il gruppo si è trovato a consegnare ai propri azionisti cifre descriventi un vero e proprio disastro contabile con un nuovo forte passivo e con scarsa fiducia in un futuro che si appalesa sempre più nero. Questo, oggi, è l’essere Blockbuster: accettare l’ineluttabile, arrendersi all’evidenza e tentare umilmente di salvare il salvabile.
Questo è quel che l’azienda sta per fare: quando si inizia a parlare di “Chapter 11” significa che un gruppo è a serio pericolo di insolvenza e ciò configura una seria possibilità di bancarotta. In questi casi un gruppo in difficoltà si rivolge a particolari meccanismi di tutela previsti dalla legge e tali strumenti vengono applicati al fine di salvare tanto l’azienda quanto tutti gli attori interessati (dai creditori ai dipendenti e via dicendo). Questo tipo di strumenti è stato generosamente impugnato nel pieno della crisi economica, quando Barack Obama ha dovuto mettere pezze ovunque per tenere a galla l’economia USA. Questo però è un caso diverso, perchè Blockbuster non paga specifiche incapacità gestionali, ma paga piuttosto le conseguenze per la completa cecità strategica dimostrata in anni di inerzia. I numeri sono impietosi e la documentazione consegnata alla SEC parla di 1 miliardo di debiti con immediato tracollo del rating Standard & Poors.
Blockbuster si è seduta su una solida montagna. quella del videonoleggio. Ha cavalcato il settore portando il proprio brand in ogni dove, presentandosi come punto di riferimento, ma non ha saputo portarsi in una posizione più tranquilla quando i primi scricchiolii hanno iniziato a manifestarsi. Ora il settore può prendersela con il P2P o con lo streaming, con il mercato della distribuzione digitale o con la crisi economica: le scusanti non reggono, in ogni caso. Quel che Blockbuster non ha saputo capire è il fatto che essere Blockbuster significa essere potenti, ma non imbattibili. Nel momento in cui tutto ha iniziato a crollare, infatti, a pagarne le spese è proprio chi più di altri è esposto.
Jim Keyes, CEO del gruppo, sostiene che non vi sia nulla di sbagliato nel core business dell’azienda. Gli analisti vedono però nel futuro dell’azienda soltanto soluzioni finanziarie estreme quali cessioni e accordi utili non tanto a rilanciare le attività, quanto più a trovare immediata e vitale liquidità.
E nello specchio di Blockbuster oggi sono in molti a specchiarvisi. L’intero mondo del videonoleggio guarda a questo gruppo e pensa che occorra combattere e resistere; l’intero mondo dei consumatori guarda a questo gruppo e pensa che il passato è inesorabilmente costretto a rimanere indietro per far posto al futuro; l’intero mondo degli sviluppatori guarda a questo gruppo e pensa a quanto la Rete offra opportunità maggiori rispetto al meccanico sistema del noleggio dei DVD. Mentre gli editori cartacei piangono per l’arrivo della Rete, il videonoleggio piange pressapoco per lo stesso motivo. Essere Blockbuster, per certi versi, è al giorno d’oggi un po’ come essere un grande giornale. La meccanica è simile, i problemi sono gli stessi e il destino è segnato in entrambi i casi. Le resistenze sembrano vane su entrambi i fronti ed ogni appello alle istituzioni affinché creino strumenti legislativi di tutel e repressione hanno un sapore vagamente salmastro.
Inutile resistere alla montagna che crolla sotto i tuoi piedi. L’unica soluzione è rimanere integri ed aspettare che tutto si sia riassestato. Evitare la bancarotta è il primo obiettivo, cercare un nuovo modello di business è il secondo, tornare a crescere è il terzo, l’ultimo, quello remoto.
Essere Blockbuster, fino a ieri, era questione di vanto. D’ora in poi sarà questione di umiltà ed orgoglio. Di resistenza. Di rivalsa. Sempre che si accetti la montagna che cade e non si tentino inutili resistenze.