Un hacker può essere ateo ed un fedele può non essere un hacker. Tuttavia c’è un’affinità tra questi due mondi, un approccio similare alla creatività come espressione della grandiosità dell’uomo. C’è un’affinità tra il Creato ed il mondo virtuale, c’è qualcosa che correla la realtà ai bit. “Etica hacker e visione cristiana“, firmato da padre Antonio Spadaro, non può che essere un articolo che fa discutere, perché prende due mondi lontani e li mette affianco per farne emergere le affinità. L’approccio è intelligente, ma la materia è complessa: non seguirne passo a passo la filologia espressa significa perdersi in un superficiale accostamento, mentre approfondirne le parole consente di carpire come e perché padre Spataro abbia voluto osare una sovrapposizione tanto coraggiosa.
L’articolo, pubblicato su La Civiltà Cattolica del 19 marzo, sgombra anzitutto il campo dai dubbi: “hacker” e “cracker” sono due concetti del tutto differenti e non conoscere tale dicotomia vieta ogni riflessione ulteriore sul tema. Nel nome di «Gli hackers costruiscono le cose, i crackers le rompono», l’articolo prosegue invece snocciolando ciò che è un modo di vivere, di pensare, di essere. Prosegue analizzando uno stile di vita, un modello con cui la Chiesa va a confrontarsi. Prosegue spiegando i motivi di tale approfondimento:
Quella hacker è una sorta di «filosofia» di vita, di atteggiamento esistenziale, giocoso e impegnato, che spinge alla creatività e alla condivisione, opponendosi ai modelli di controllo, competizione e proprietà privata. Intuiamo dunque come parlando in modo proprio degli hacker siamo di fronte non a problemi di ordine penale, ma a una visione del lavoro umano, della conoscenza e della vita. Essa pone interrogativi e sfide quanto mai attuali.
Padre Spadaro non intende sposare totalmente questa filosofia, che giudica figlia degli anni ’70 con tutto il bene ed il male che hanno lasciato. Ma usa comunque Steven Levy per dar vita alla propria riflessione e parte dall’Homebrew Computer Club per tentare di chiarire la chiave di lettura offerta. Da quel club, infatti, scaturirono due anime: la prima è quella di Steve Wozniak, da cui nacque l’Apple I; la seconda è quella di Tom Pittman, uno che ai tempi scriveva:
Io che sono cristiano sentivo di potermi avvicinare a quel tipo di soddisfazione che poteva aver sentito Dio quando creò il mondo
La creazione è intesa come una sorta di pulsione, una alchimia tra conoscenza e desiderio che porta le capacità umane a spingersi oltre. «L’hacker è capace di grande sforzo, ma perché è mosso da una forte motivazione. Non esclude affatto l’impegno e anzi aborrisce l’ozio, ma sente la sua fatica allietata da una motivazione creativa».
A tutto ciò fa seguito il concetto del “dono” e della “condivisione“. Entrambi sono concetti che fanno parte tanto della dottrina cristiana quanto dell’etica hacker, ed in entrambi i mondi rappresentano i veri cardini di quello che è un modo di vivere improntato alla collettività, al miglioramento sociale, all’avanzamento di tutti grazie allo sforzo dei singoli. Molte analogie, ma alcune fondamentali difformità. Ed una di queste è nel concetto di autorità, che l’etica hacker rifiuta in favore di una più orizzontale concezione del rapporto tra le persone.
Agire collaborativo e principio di autorità sono in radicale intrinseca opposizione, come sembra essere dato per scontato? Certo, il panorama descritto fino a questo punto ci fa confrontare con una forma mentis con la quale la fede cattolica dovrà relazionarsi sempre di più. Essa richiede una nuova forma di «apologetica» che non potrà non partire dalle mutate categorie di comprensione del mondo e di accesso alla conoscenza.
Secondo padre Spadaro occorre infatti rivedere il significato delle parole, per risalire alla fonte del problema: oggi “dono” e “condivisione” sono diventate in molti casi una cosa sola, ma in realtà il “dono” in sé dovrebbe preludere ad una concessione gratuita e priva di scambi. Il dono un tempo era esclusivamente un “dare”, oggi è invece parte integrante di una dinamica di “dare e ricevere” a costo zero che annacqua il tutto in una sorta di logica di blando profitto: «indurre a intendere la comunione come connessione e il dono come gratuità» è il rischio che si vede nel mondo hacker inteso come filosofia con cui confrontarsi. Su questo punto la Chiesa sembra lanciare all’etica hacker un incrocio di sguardi: «nella sfida che la mentalità hacker comincia a porre alla teologia e alla fede, va preservata l’apertura umana alla trascendenza, a un dono indeducibile, a una grazia che «buca» il sistema delle relazioni e che non è mai solamente il frutto di una connessione o di una condivisione, per quanto ampia e generosa».
Confrontarsi in maniera critica, seria e non compiacente, con lo spirito hacker può aiutare oggi a comprendere che il fondamento trascendente della fede mette in moto un processo aperto, creativo, collaborativo, collegiale.
Ed il confronto si fa pungente provocazione quando si lancia l’accostamento estremo: e se Dio stesso fosse in sé un hacker? Le parole sono quelle di Pekka Himanen, docente all’università di Helsinki e di Berkeley ed autore de “L’etica hacker e lo spirito dell’età dell’informazione”
Possiamo dire che la risposta degli hacker alla domanda di Agostino è che Dio, in quanto essere perfetto, non aveva bisogno di fare assolutamente nulla, ma voleva creare. […] La Genesi può essere vista come un racconto sulle modalità dell’attività creativa. In essa i talenti vengono usati in modo immaginativo. Essa riflette la gioia che si prova quando si giunge a sorprendere se stessi, fino a superarsi. Non passa giorno che Dio non si presenti con un’idea ancora più straordinaria: come realizzare delle creature bipedi senza peli. E si entusiasma tanto per aver creato un mondo fatto per gli altri che è perfino pronto a rimanere sveglio per sei notti di fila, riposandosi un po’ soltanto il settimo giorno