Quante probabilità ci sono di fare delle pessime figure, di pentirsi di aver scritto un commento livoroso, se lo si è fatto su un social network? Secondo uno studio britannico, molte di più. Il professor Ian Rowe dell’Università del Kent ha dato il suo contributo a smontare le tesi dell’anonimato dei social (argomento di chi non conosce questi siti), puntando l’attenzione sui siti dei quotidiani online, dove ha riscontrato un tasso di inciviltà doppio.
Due volte più numeroso, il volume dell’hate speech nei form dei commenti – moderati o meno – di un giornale rispetto a Facebook. Lo studio (pdf) è un classico esempio di analisi comparativa qualitativo/quantitativa, che ha preso in considerazione la sezione commenti del Washington Post (neppure un giornale molto popolare) e i commenti degli stessi articoli postati sul social. Un’idea brillante, concretizzata con una puntigliosa descrizione dei metodi utilizzati per cogliere i codici linguistici considerati “violenti”, e che mostra come i segni di linguaggio sarcastico, stereotipato, razzista, volgare, siano naturalmente diffusi quando si tocca l’argomento politica, ma nei social lo sono di meno.
La bufala dell’anonimato
Da tempo Webnews conduce una battaglia contro i nemici della Rete, soprattutto nell’ambiente politico, che si ostina a dare ai social una caratteristica che paradossalmente non le appartiene per statuto: l’anonimato. La grande rivoluzione del web 2.0, infatti, è esattamente l’opposto: ha quasi annullato l’anonimato – mito dell’Internet anni 90 – esaltando le componenti narcisistiche della personalità e cambiando in scala globale il senso stesso della riservatezza delle nuove generazioni.
Lo studio ribadisce utilmente un concetto noto dai publisher: i troll non amano essere riconosciuti come tali dai loro amici. Sui social possono accadere anche cose molto sgradevoli ed è giusto che se ne parli, ma sono statisticamente insignificanti rispetto alla massa di informazioni contenute e più facilmente individuabili, perché su Facebook, ad esempio, non è consentito mentire sulla propria identità e presto non sarà neppure possibile impedire di cercare qualcuno che si pensa di conoscere, che questa persona lo voglia o meno.
La questione resta: in Rete c’è il problema dell’hate speech, molti sociologi ritengono che rispecchino abbastanza fedelmente la mappa delle convinzioni politiche trasmesse culturalmente in modo analogico, ma certamente i commenti rappresentano un elemento di intrinseca instabilità per i grandi portali. Basti pensare allo sforzo di Google con YouTube. Ma almeno ora c’è uno studio che riporta l’attenzione dove avrebbe dovuto sempre restare.