Facebook e la privacy, un binomio che ha tenuto banco negli ultimi anni e continuerà a farlo ancora per lungo tempo. Al centro del dibattito c’è questa volta la partnership stretta dal social network con Datalogix, azienda che si occupa di analizzare le informazioni relative agli acquisti delle famiglie americane. Cosa ha a che fare questo con la piattaforma di Mark Zuckerberg? Molto, stando a quanto spiegato dalla COO Sheryl Sandberg agli inserzionisti in occasione della Advertising Week di New York.
La collaborazione tra le due realtà è finalizzata a mettere in luce il rapporto tra i banner mostrati su Facebook e il volume d’acquisto dei prodotti nei negozi, indipendentemente dal numero di click ricevuti. In altre parole, Datalogix analizza i beni comprati dai consumatori che nei supermercati o nei centri della grande distribuzione utilizzano le carte fedeltà, per incrociarli poi con quelli dei rispettivi profili sul social network. Se viene trovata una corrispondenza tra l’acquisto e l’inserzione visualizzata significa che l’investimento pubblicitario è andato a buon fine.
Questo, in estrema sintesi, il principio che sta alla base di questa nuova partnership, che ha già fatto suonare un campanello d’allarme nei tutori della privacy. La pratica però, grazie ad alcuni accorgimenti, sembra essere meno invasiva di quanto si potrebbe pensare. Nei dati forniti a Datalogix ogni utente (e acquirente) è identificato con un codice che non contiene riferimenti alla reale identità (ad esempio Mario Rossi diventa “acb123456”), così come in quelli provenienti da Facebook. Questo permette di incrociare le informazioni senza minare l’anonimato, o almeno è quanto stabilito dagli occhi vigili della Electronic Frontier Foundation, che nelle ultime settimane si è interessata alla questione.
Tornando all’intervento di Sheryl Sandberg, l’obiettivo è stato quello di rassicurare gli investitori su quanto siano efficaci gli strumenti messi a disposizione da Facebook. Le statistiche (ottenute prendendo in considerazione le vendite negli USA dei brand Nestlé, Procter & Gamble e Unilever) parlano di un fattore di conversione altissimo tra l’advertising mostrato agli utenti e l’acquisto reale, tre volte superiore rispetto a quanto ottenuto con campagne pubblicitarie più tradizionali.