La Timeline, la nuova forma a diario di Facebook, prende in considerazione tutta la nostra vita. E come la vita, quindi, può avere un inizio che corrisponde alla nostra nascita e seguirci passo passo. Resta però una domanda: fino alla fine? E come? L’interrogazione è ormai filosofica.
Stanno nascendo questioni etico-morali nel mondo di Facebook che scomodano la filosofia. È anche una questione di numeri: in un social network popolato quanto un continente, muoiono ogni giorno migliaia di persone che hanno un profilo sociale che continua a vivere: situazione alienante, a volte insopportabile, per parenti e amici, per la quale ci sono alcune soluzioni ma nessuna realmente condivisa.
Talmente vero che sull’Atlantic è stato pubblicato un articolo molto approfondito sul tema della “vita-Facebook dopo la morte” e per rispondere a queste domande è intervenuto Patrick Stokes, filosofo di mestiere all’università di Melbourne autore di uno dei primi saggi sull’argomento: “Ghosts in the Machine: Do the Dead Live On In Facebook?”
Ad oggi su Facebook ci sono due grandi scuole di pensiero: chi pensa che il profilo di una persona scomparsa vada spento e chi invece crede vada modificato in una pagina “in memoria”, a volte temporanea e a volte tenuta in vita dagli altri: molto in voga negli ultimi tempi (è il caso, ad esempio, della pagina dell’attivista e pacifista italiano Vittorio Arrigoni, tenuta online dai famigliari).
Dovremo abituarci ai cimiteri online? Oppure a modificare il senso della perdita, della scomparsa degli altri – e di noi stessi – sapendo che ci saranno parti della vita di ciascuno che continueranno la loro esperienza sociale?
«Cosa significa, cosa ci racconta la persistenza delle persone dopo la morte? Ho iniziato a pensare al fatto che c’è questa divisione tra il sé che verifichi in questo momento, e il tipo di estensione dell’essere fisico e sociale. (…) Nel libro cito la sorella di un soldato australiano che era stato ucciso in Afghanistan, che mi ha detto che ‘è quasi come se lo riportasse in vita, si può sentire la sua voce’. Questo è utile per le persone, può, in qualche misura, preservare qualcosa della presenza distintiva, fenomenica, delle persone, il loro modo di dire le cose, il loro aspetto, la tendenza a comunicare. Nella misura in cui conserva queste caratteristiche, penso che probabilmente aiuta le persone in lutto nello stesso modo in cui aiuta leggere vecchie lettere e cose del genere.»
C’è però un problema, sollevato dal filosofo: Facebook ti permette di sopravvivere per tutti gli altri, ma non si può sopravvivere a sé stessi, il che è sconfortante. Così si moltiplicano le applicazioni che partono automaticamente quando si notifica la morte di un utente (la più diffusa è If I Die), oppure c’è chi inserisce la password del profilo Facebook nel testamento. Attenzione, però: la vita online dell’immagine persistente di noi non è la vita, ma una sua riduzione così radicale che obbliga a interrogarsi, comunque, sulla vita e sulla morte:
«E quindi c’è questa tensione che sale tra il sé, che è quello dell’identità fisica e sociale che esiste nel tempo e anche dopo la morte, anche se in forma ridotta, e il vostro senso del sé come il chi siete in questo momento. Come una volta ha scritto Woody Allen: “Non voglio vivere nei cuori dei miei concittadini, voglio vivere nel mio appartamento; non voglio raggiungere l’immortalità attraverso le mie opere, voglio raggiungere l’immortalità non morendo!”»
Nel suo libro Stokes cita un caso abbastanza emblematico, quello del sito virtualeternity.com, che permette di creare un proprio avatar – una foto, una breve descrizione – collegato all’intelligenza artificiale, in grado di rispondere alle domande e di interagire con l’esterno al posto del defunto. La tecnologia non è ancora abbastanza avanzata, ma si può immaginare lo scenario in cui si sarà sostituiti da surrogati intelligenti dopo la nostra scomparsa biologica? E tutte le informazioni che avremo inserito nelle reti sociali saranno la base della nostra persistenza, come organi espiantati per la vita di qualcun altro?
Dipende da quanto i prossimi computer saranno in grado di generare una coscienza, per quanto semplificata. Ma forse è anche una ri-scoperta del valore del postumo che la disincarnazione di Internet tendeva a farci dimenticare: Facebook, quindi, con la sua capacità di farci introdurre come noi stessi, non in forme anonime o parziali, ci ha restituito il senso della fine. Coi suoi album, i post, le condivisioni, è diventato “carnale”.