Una gola profonda che giunge dall’interno di Facebook, una suggestione che fa discutere, un dubbio che si instilla: e se Facebook non fosse un semplice raccoglitore di contenuti nel quale sono gli algoritmi a valutare quali siano gli elementi di maggior prestigio ai quali offrire maggior rilevanza? L’ipotesi nasce da un ex-collaboratore del network che avrebbe raccontato come funzionava il sistema di controllo dei “trending topic” e quali fossero i paradigmi imposti dall’alto per la scelta delle notizie da affossare e quelle da porre in evidenza.
A raccogliere tali opinioni ci ha pensato Gizmodo, secondo cui il lavoro di “curation” avrebbe lo scopo di aggiungere un “layer” umano ai processi di valutazione circa i temi ed i contenuti che meritano un posto di privilegio tra i trend della giornata. Il problema non è in questo passaggio (probabilmente scelta meritevole, finalizzata a smussare gli spigoli di processi eccessivamente affidati a calcoli e valutazioni automatizzate, non in grado di interpretare la realtà e di adattarvisi), quanto nel fatto che il lavoro umano sarebbe stato imbrigliato anche con finalità politiche.
Questo l’aspetto più sconcertante delle rivelazioni raccolte: l’intervento umano non sarebbe stato usato soltanto per modificare i trend in vista (opzione non disponibile in Italia) per ottimizzarne l’appetibilità del pubblico, ma anche per ridurre gli spazi di visibilità di idee e protagonisti del mondo politico conservatore USA. Meno Mitt Romney e più NBA, meno Repubblicani e più Democratici.
Facebook può farlo?
Facebook può oscurare notizie, mettendo in evidenza particolari fatti o opinioni a danno di altri fatti o altre opinioni? Facebook può orientare il punto di vista di milioni di persone attraverso scelte (né più, né meno) di caratura editoriale? Facebook può plasmare l’opinione pubblica operando sulle masse attraverso un lavoro sottile di filtro e devianza che predispone la dieta informativa quotidiana sulla base di questo o di quel principio?
La domanda è fuorviante, perché il chiedersi se Facebook possa farlo impone una dicotomia eccessivamente restrittiva. “Facebook può farlo?” significa chiedersi anzitutto se il social network possa tecnicamente mettere in atto una strategia in grado di deviare le opinioni. “Facebook può farlo?” potrebbe altresì significare un dubbio di natura giurisprudenziale, instillando il dubbio per cui non sia effettivamente plausibile tale comportamento all’interno del quadro legislativo entro cui si va ad operare.
La domanda è fuorviante poiché non affonda le mani in quel che più conta: che Facebook possa o meno farlo, cosa succederebbe se lo facesse? Cosa implicherebbe l’effettiva azione proattiva di Facebook sui propri utenti attraverso la mera selezione dei post a cui offrire maggior risalto? Quali responsabilità aggiuntive dovrebbero scendere sugli algoritmi di Facebook se fosse chiaro il fatto che non è tutto frutto del calcolo, ma anche dell’astuzia e dell’intuito di curatori selezionati in grado di definire l’esatta consistenza dei trending topic nelle mani di milioni di utenti? Facebook, insomma, potrebbe avere ruolo nella campagna elettorale in corso negli Stati Uniti attraverso una maschera di neutralità che nasconde pratiche tutt’altro che neutre?
Social politique
Poche settimane or sono il gotha della Silicon Valley si è trovata in un meeting più o meno segreto dal quale è trapelato il bisogno di frenare la corsa di Donald Trump verso la Casa Bianca. Mark Zuckerberg non si sarebbe tirato indietro in questo affondo, né avrebbe mai celato le proprie simpatie per i Democratici. Quando questi preliminari vengono fatti seguire dal sospetto per cui il gruppo possa aver in qualche modo inciso sulla formazione della pubblica opinione attraverso la deviazione pilotata del traffico online, il caso esplode in tutta la sua gravità.
In Italia se ne parla poco per un semplice motivo: i trending topic non ci sono. Per semplice analogia si potrebbe immaginare un social network che affossa i post di un esponente in corsa per la Presidenza del Consiglio avvantaggiandone un altro: facile immaginare tanto la gravità del problema, quanto l’eco che raccoglierebbe.
Facebook, da parte sua, nega completamente ogni addebito. Ogni scelta umana sui trend sarebbe stata ispirata alla mera qualità dell’esperienza utente, senza alcun pregiudizio politico e all’insegna della più completa neutralità. E tutto si ferma giocoforza a queste dichiarazioni: oltre alle ammissioni di un ex-dipendente, Gizmodo non sembra avere altro in mano e con estrema correttezza riferisce che nessun altro editor di Facebook ha in alcun modo confermato tali accuse.
Facebook può farlo? Potrebbe, perché no: è tecnicamente possibile, non è legalmente vietato e la questione morale è sempre una dimensione relativa. Quali ricadute avrebbe la cosa sull’opinione pubblica? Potenzialmente alto, anche se sottile e improntato a deviazioni morbide di lungo periodo. La cosa può essere decisiva in una battaglia elettorale? In una battaglia lunga come quella della corsa alla presidenza USA potrebbe avere un peso importante. C’è del dolo, insomma? Solo le prove potrebbero confermarlo. O testimonianze più consistenti.
Quel che fa Gizmodo ad oggi è la creazione di un punto interrogativo che costringe a rimanere allerta di fronte a qualsiasi piattaforma: i dubbi che pendono oggi su Facebook erano ieri concentrati sul ranking di Google e non potrebbe essere altrimenti. La distanza tra un dubbio e la realtà è comunque enorme e non sembrano al momento esserci elementi tali per poterla colmare. Rimane un punto interrogativo, senza arte né parte, che pende su Facebook in attesa di prove che possano rendere più concreti addebiti altrimenti destinati a sfumare nel nulla.