Per la prima volta dalla nascita della diatriba legale, Facebook ha mostrato oltre 200 messaggi e-mail scambiati tra il CEO Mark Zuckerberg e il webmaster Paul Ceglia. L’obiettivo, si capisce, è quello di annullare una volta per tutte i tentativi dell’imprenditore che ritiene di avere diritto al 50 percento di proprietà sul social network.
La causa intentata da Ceglia contro il colosso si riferisce a un presunto accordo preso tra lui e Zuckerberg nel lontano 2003, con il webmaster che avrebbe investito 1.000 dollari in quello che sarebbe diventato poi Facebook. A riprova di ciò sarebbero alcune e-mail scambiate con l’attuale amministratore delegato dell’azienda: prove che tuttavia non sono mai state mostrate in tribunale, scatenando le perplessità oggettive sulla veridicità dell’accusa.
Per smontare in maniera definitiva quanto affermato da Ceglia, gli avvocati di Facebook hanno messo le mani su alcuni messaggi scambiati tra Zuckerberg e Ceglia nel 2004, quando l’attuale CEO era ancora uno studente di Harvard. In nessuna di queste e-mail viene dimostrato quanto afferma il webmaster. Anzi, è al contrario Zuckerberg a lamentarsi di un ritardo nei pagamenti da parte di Ceglia per il progetto StreetFox, con 9.000 dollari ricevuti su un totale di 19.000.
Gli avvocati del social network accusano a loro volta la parte opposta di aver tentato di manipolare le prove. Ceglia sostiene infatti che non esistono e-mail in forma nativa, ma soltanto ridigitate su Microsoft Office Word, perché il suo programma di posta elettronica avrebbe eliminato automaticamente tutti i vecchi messaggi. Facebook coglie la palla al balzo e specifica, rafforzata da quanto recuperato dai server dell’Università di Harvard, che queste e-mail non sono in realtà mai esistite e che quindi il webmaster si sia limitato a digitarne il testo su Word nel tentativo di trarre in inganno il giudice.
Per questa ragione, l’azienda di Menlo Park chiede alla Corte di respingere in maniera definitiva il caso posto da Ceglia, che già nel mese di gennaio venne multato per una mancanza di rispetto nei confronti delle richieste espresse dal giudice che non poteva essere tollerata.