La vicenda della campagna contro Google da parte di Facebook sta diventando una patata bollente per Big F, letteralmente preso con le mani nel sacco. Ma è davvero uno scandalo?
Riassumiamo brevemente la vicenda. Due giornalisti di USA Today hanno svelato l’altro ieri di essere stati contattati dalla Burson-Marsteller, una delle più grandi società di Pubbliche Relazioni al mondo, ricevendo degli input su possibili violazioni di dati sensibili da parte di Google.
Non avendo trovato granché e non avendo ricevuto risposta sulla fonte di questa dritta, hanno fatto il loro mestiere di giornalisti e dopo aver pubblicato lo scambio di mail hanno prodotto l’interesse generale dei colleghi. Qualche ora dopo, la clamorosa denuncia di Daily Beast: il mandante è Facebook.
Notizia confermata con notevole imbarazzo da Palo Alto, che ha ammesso di aver pagato la società di PR per screditare l’avversario. In queste ore è successo di tutto: insulti, migliaia di articoli e commenti. In Italia, IlSole24Ore ne parla come di “una figuraccia” potenzialmente molto dannosa per la creatura di Mark Zuckerberg. TechCrunch non è meno tenero.
Facebook, da parte sua, ha anche spiegato le ragioni di questa iniziativa, difendendosi con un argomento, quello dell’affidamento a professionisti, che sembra avere convinto pochi, ma che invece qui si vuole considerare abbastanza corretto:
“Non abbiamo autorizzato né pianificato una campagna di disinformazione. Volevamo che dei soggetti indipendenti verificassero che Google Social Circles non raccogliesse le informazioni condivise dagli utenti su Facebook, cosa che noi non abbiamo autorizzato. Abbiamo ingaggiato la Burson-Marsteller per attirare attenzione su questo tema usando informazioni di dominio pubblico verificabili da qualsiasi media. Sono cose serie, avremmo dovuto presentarle in un modo più serio e trasparente.”
L’ammissione finale è doverosa, perché Facebook avrebbe dovuto essere più trasparente. Ma che senso ha usare l’espressione “campagna diffamatoria” quando ad essere stimolati sull’argomento sono state le testate giornalistiche e i blog specializzati? Facebook non ha utilizzato una finestra propria per lanciare questi messaggi, ma si è limitata a fornire dritte, che considerava a torto o a ragione importanti per la correttezza dell’ambiente, a interpreti terzi rispetto alle parti coinvolte. Fossero tutte così le diffamazioni.
Forse sarebbe meglio parlare di ipocrisia da parte di Facebook, che mostra improvvisa preoccupazione per l’uso di dati riservati degli internauti, tramite l’applicazione di Google, trattandoli come fossero propri, scivolando così nella contraddizione rispetto alle più volte sbandierate rassicurazioni sul fatto che questi dati non vengono ceduti e non sono di sua proprietà (come nell’ultimo caso Symantec).
Preoccupazioni dettate, ovvio, dal timore della concorrenza di Google nei social network, ma di mezzo ci sono 25 miliardi di dollari di mercato pubblicitario, di cui Facebook ha il cinque per cento e Google il 50. Più che comprensibile che il primo voglia salire ricordando che anche Mountain View deve rispondere di alcuni problemi, come la riservatezza su Android o la mega multa che dovrà pagare per la sua politica sull’advertising. Insomma, che non può fare la vergine in un bordello.