La campagna elettorale americana sta stressando il discorso comune al punto che anche gli standard della community hanno ceduto. Per impedire infatti che molti post del candidato repubblicano Donald Trump fossero cancellati, perché considerati violenti, Mark Zuckerberg in persona è dovuto intervenire, con buona pace della neutralità da sempre sbandierata. La questione non è però politica, ma mediatica, informativa: Facebook è ormai troppo importante per chiamarsi fuori da queste trasformazioni del discorso pubblico.
Il Wall Street Journal ha raccontato, poche ore fa, la situazione di forte imbarazzo nel quartier generale di Menlo Park. Da ormai un anno l’azienda discute al suo interno su come comportarsi coi contenuti politici di Trump, apertamente razzisti o comunque discriminatori nei confronti di persone, come i musulmani americani oppure i messicani che lavorano in territorio statunitense, che sono molto rappresentati all’interno di Facebook. Tensioni che hanno rischiato a più riprese di spaccare la società, cioè di portare dentro quanto sta accadendo di fatto nel resto del paese. Così Mark Zuckerberg ha tagliato la questione come il nodo di Gordio: nessuno tocchi i contenuti di Trump, anche qualora violino gli standard del social network.
Questa decisione non ha però sortito grandi effetti, almeno stando al reportage del quotidiano di New York, visto che alcuni dipendenti del gruppo che lavora alle segnalazioni delle violazioni hanno minacciato di licenziarsi. D’altro canto, i responsabili stessi della campagna di Trump non hanno calcato la mano, assicurando che non si sono mai sentiti discriminati dal social, piuttosto dalle aggressive contro-campagne dei democratici. Insomma, che sta succedendo in Facebook? Solo una tempesta elettorale che non sta risparmiando nessuno o qualcosa di più?
Some of Trump's Facebook posts were considered for removal as hate speech before Zuckerberg intervened https://t.co/ywHgzwWglA 🔓
— The Wall Street Journal (@WSJ) October 21, 2016
La conversazione
Winston Churchill amava dire che se trovava qualcuno accendersi una sigaretta sotto il cartello “vietato fumare” lo multava, se ne trovava dieci li invitava a spostarsi, se ne trovava mille toglieva il cartello. Intendeva con questa metafora spiegare quanto fosse determinante nella logica politica prendere atto delle dinamiche di una società e il cambiamento di ciò che viene considerato lecito oppure no. Zuckerberg, forse scottato anche dalle accuse di aver lasciato che alcuni dipendenti manipolassero il trend delle news a svantaggio dei repubblicani, ha in sostanza fatto lo stesso, come ha spiegato un portavoce di Facebook giustificando questo stop al lavoro di segnalazione dei contenuti:
Molte persone stanno esprimendo opinioni su questo contenuto particolare, ed è diventato una parte importante della conversazione intorno a chi sarà il prossimo presidente degli Stati Uniti. (…) Stiamo permettendo di esprimersi a voci che la gente trova interessanti, significative o importanti per il pubblico interesse, anche se potrebbero comunque violare i nostri standard.
Lo standard dunque è diventato flessibile. La stessa frase detta da chiunque di noi potrebbe essere bannata, se detta invece da Donald Trump restare online. Difficile da digerire. Certamente è la prima volta che la ragion politica, il realismo politico entra così prepotentemente in Facebook. Forse per non uscirne più.
Come non definirla media company?
Circa il 44% degli americani si informa soltanto attraverso Facebook. La news feed è lo specchio dell’opinione pubblica, quella formata e quella in formazione. Anna Lauren Hoffmann, docente di etica dell’informazione presso l’Università della California, Berkeley, è convinta che Facebook stia affrontando per la prima volta «la sua dimensione politica», il che è piuttosto scontato, pensando al contesto, al suo peso, ma anche preoccupante visto che ad ogni buona occasione (anche in Italia poco tempo fa durante il suo speech alla LUISS), Zuck rifiuta sempre di definire la sua creatura come una piattaforma mediatica a tutti gli effetti. Questa ammissione porterebbe al riconoscimento di una serie di responsabilità che evidentemente non vuole. Tuttavia, anche questo passo su Trump – come anche la presa di posizione garantista sulla donazione di Peter Thiel, rinnegato della Silicon Valley perché di simpatie repubblicane – dimostra che sta diventando un rifiuto al quale ormai non crede più nessuno.
Se Facebook vuole essere un luogo di libera espressione, come può conservare una neutralità che, a fronte delle spaventose parole di certi politici, rischia soltanto di essere un passepartout per la discriminazione sociale? Dilemma tremendo, per il social e anche per quel miliardo e mezzo di persone che lo frequentano.