Qualche settimana fa Mark Zuckerberg ha detto che non avrebbe cancellato le vignette su Maometto ritenute offensive, ergendo la sua creatura a vessillo di libertà di espressione. La notizia che Facebook ha accolto la richiesta della corte di Ankara di cancellare alcuni post contenenti ironie su Maometto ha scatenato le critiche. Per alcuni è una gaffe, altri hanno usato parole più pesanti. Quel messaggio del fondatore del social network era però riferito alle minacce dei fondamentalisti, non alle leggi degli stati.
Le parole di Zuckerberg all’indomani degli attentati parigini erano state accolte con qualche perplessità. Difficile non pensare ai tanti casi nei quali Facebook è soggetto alle restrizioni dei paesi in cui opera, come in Cina, Russia, Pakistan: migliaia sono le richieste che Facebook riceve da questi paesi (1893 censure soltanto in Turchia nel 2014) che hanno norme molto diverse da quelle comunemente accettate nei paesi europei, ma che rappresentano mercati e porzioni di mondo nei quali nessuna web company accetterebbe mai di essere esclusa. Allora perché stupirsi? Forse quel messaggio è stato equivocato. Zuck aveva raccontato l’episodio delle minacce ricevute da estremisti religiosi proprio per distinguere i gruppi di pressione indebita dalle leggi nazionali. Anche se, nella foga retorica di quel post, c’è un passaggio che ora sta pagando caro nei commenti degli opinion maker.
We follow the laws in each country, but we never let one country or group of people dictate what people can share across the world.
Facebook e le democrazie
«Noi seguiamo la legge in ogni nazione, ma non lasciamo che una nazione o un gruppo di persone dettino ciò che la gente può condividere a livello internazionale». Questa frase è in contraddizione con la testa abbassata da Facebook in Turchia, dove il tribunale di Ankara ha chiesto e ottenuto la cancellazione di vignette offensive, tra le quali anche quelle di Charlie Hebdo. Eppure considerando la premessa della frase, dunque più importante dell’affermazione successiva che è subordinata, si comprende meglio il pensiero di Zuckerberg e soprattutto si capisce come le critiche che ha ricevuto siano piuttosto superficiali.
Basterebbe immaginare cosa accadrebbe se Facebook ignorasse una ingiunzione di un tribunale italiano: tutti punterebbero il dito contro un potere ormai fuori controllo che si comporta come un impero; senza il rispetto delle sovranità e considerando la potenza economica di cui dispongono, queste web company costituirebbero un nuovo ordine. Visto dunque che la Turchia è un paese con libere elezioni e leggi riconosciute, se i tribunali turchi chiedono qualcosa a Facebook è corretto che il sito acconsenta e rispetti la richiesta. Certo, la minaccia di oscuramento è un bell’incentivo e non depone a favore del coraggio della società californiana né del suo impegno per i diritti civili nel mondo.
Forse l’equivoco è tutto qui, non è compito di Facebook migliorare le democrazie (con tutto il portato arbitrario e tipicamente occidentale di questo pensiero) né tantomeno sostituirsi alle leggi e alle costituzioni. Zuckerberg non ha sbagliato a rispettare la richiesta di Ankara, né ad aver puntualizzato a suo tempo con quel post a proposito di cosa pensava dei fondamentalisti. L’errore vero è lo storytelling di queste multinazionali, che si dipingono come esportatrici di libertà di espressione e promotrici di un miglioramento delle condizioni di vita delle persone in tutto il mondo.
Una narrazione che mostra tutta la sua cedevolezza.